Biscotto di Sant’Angelo

Sinonimi e/o termini dialettali: Tarallo di San Michele

Territorio interessato alla produzione: Comune di Sant’Angelo d’Alife

Descrizione sintetica prodotto:

Grosso pane – tarallo a forma di anello del diametro di 18 – 20 cm, sezione circolare di 2 cm circa. Il colore è biondo – dorato più o meno intenso, non uniforme, leggermente lucido. In sezione è bianco, con ampie e diffuse alveolature; La consistenza è morbida e delicata, con crosta sottile, leggermente croccante. Pur essendo, per la forma, definito “tarallo”, in effetti è un “pane rituale”, confezionato non a scopo di vendita solo per la festa di San Michele (29 settembre).

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Disposta la farina a doccia, si prepara un impasto aggiungendo acqua tiepida, sale, il lievito madre e i semi di finocchio selvatico; la lavorazione procede fino alla giusta consistenza, quindi si formano i “taralli”, di forma circolare e del diametro di 18 – 20 cm c.ca, ripiegando a ciambella un rotolo di pasta del diametro di 2 cm c.ca. immediatamente dopo si immergono in una bacinella con acqua ben calda (ma non bollente) per 20-30 sec., finchè non tornano a galla; Quindi si scolano aiutandosi con una schiumarola e si ripongono su di un telo di lino o cotone per qualche minuto, in attesa di essere posti su apposite teglie metalliche e cotti per pochi minuti in forno da pane alimentato a legna, preventivamente riscaldato a temperatura opportuna, fino alla giusta colorazione. Una volta sfornati, i “taralli” vengono chiusi in una carta da pane e fatti raffreddare su grate di vimini.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

– farina
– acqua
– lievito madre
– semi di finocchio selvatico
– tavola concava per l’impasto (“facciatora”)
– pentolone in rame stagnato o metallo
– grossa schiumarola
– tovaglia di lino o cotone
– teglie da forno
– grate di vimini
– carta da pane.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Localmente noto come “biscotto”, assomiglia in realtà più propriamente ad un pane aromatizzato a forma di ciambella, che trova riscontro in svariati esempi di “pani rituali” (es. “Ciambella di Veroli). La diffusione è limitata alla comunità di Sant’Angelo d’Alife ed alla “Festa di San Michele Arcangelo”, venerato il 29 settembre nell’omonimo santuario e relativa grotta dedicata al santo. In tale aoccasione vengono prodotti i “biscotti” per essere offerti o venduti in cambio di offerte ai partecipanti alla festa, che organizzano un locale “pellegrinaggio” nei pressi del santuario annesso alla grotta. Le generose dimensioni del “biscotto” trovano spiegazione nel trattarsi in effetti di una “pane rituale, la cui forma circolare è probabilmente da mettere in relazione a riti apotropaici o benauguranti, visto che i pastori ei contadini usavano “indossare” i “biscotti” a mo’ di bracciali e portarli con se per consumarli anche nei giorni di lavoro seguenti la festa. Era inoltre usanza farli “indossare” al collo o alle braccia dei bambini, in segno di protezione.

Caciocavallo del Matese

Sinonimi e/o termini dialettali: Casicavagliu ré Matese

Territorio interessato alla produzione: Aree montane del Massiccio del Matese.

Descrizione sintetica prodotto:

Formaggio a pasta filata prodotto con latte di vacca intero di animali allevati nell’area di produzione. Se ne differenziano tre tipologie: – Fresco (Friscu); – Semistagionato (Musciu); – Stagionato (Siccu). La forma è ovale o tronco conica (a pera) con testina strozzata dal legaccio di raffia che serve per appendere le forme a delle pertiche per la stagionatura. Viene preparato in diverse pezzature che variano da 800g sino a 2,5 kg Alla vista si presenta: il fresco con crosta liscia e bianca sodo al tatto, il semistagionato ha una crosta liscia quasi lucida di colore giallo paglierino, il secco si presenta con crosta ruvida di colore bruno. La pasta è omogenea e compatta bianco latte nella tipologia frasca, tendente al giallo paglierino nella versione stagionata più carico all’esterno e meno carico all’interno. Possono presentarsi minuscole occhiature verso il centro. Nella versione secca potrebbe lacrimare al primo taglio. Il sapore è piacevole, dolce e delicato fresco fino a divenire piccante a stagionatura avanzata.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Il latte destinato alla produzione del caciocavallo del Matese proviene dalla mungitura di animali alimentati con pascolo di montagna integrato da cereali e foraggi del posto.

Dopo la mungitura che avviene al mattino e alla sera il latte intero viene coagulato, previa termizzazione, ad una temperatura di 38° con l’aggiunta di caglio di vitello liquido e siero innesto preparato nella stessa struttura di trasformazione del latte.

Dopo circa 35 minuti si procede alla rottura della cagliata con la Remenatora (Bastone di legno di faggio a forma di spatola allungata di circa 90 – 100 cm) fino ad ottenere grani di pasta della grandezza di un’oliva. Si lascia quindi riposare la pasta per 15 minuti sotto siero quindi si procede, con l’ausilio di una tela alla raccolta della pasta dalla caldaia compattandola in una tinozza di legno di ciliegio. Inizia quindi la fase di maturazione della cagliata che si lascia così riposare con l’aggiunta di siero bollente dalle 2 alle 4 ore per permettere che avvenga la fermentazione lattica. La maturazione è completata quando la pasta è nelle condizioni di essere filata e questo si verifica prelevando una piccola porzione di pasta  che messa nell’acqua bollente se inizia a filare è pronta per la successiva lavorazione.

La pasta viene quindi scolata dal siero e fatta sgocciolare per circa 15 minuti (il siero viene conservato per essere utilizzato alla prossima cagliata) poi ritorna nella tinozza e viene tagliata a fette, si aggiunge acqua bollente e si lavora con la Remenatora al fine di formare, con movimenti energici, un lungo cordone di pasta liscia, senza pieghe e sfilature e senza vuoti all’interno. Il cordone viene quindi porzionato secondo le esigenze di produzione (Per un caciocavallo fresco di 1 kg viene tagliato un pezzo di pasta di 1,2 kg circa) i pezzi mano a mano che vengono tagliati sono ulteriormente lavorati a mano nell’acqua bollente per modellare la forma comprimendo la pasta fino a renderla liscia e lucida dandogli la classica forma a pera, si procede quindi alla chiusura all’apice e alla formazione della testina.

Le forme così modellate vengono quindi immerse in acqua di raffreddamento e successivamente in salamoia. La salatura a seconda del peso può durare per un periodo di tempo variabile dalle 2 alle 6 ore. Tolte dalla salamoia le forme sono legate a coppia con legacci di raffia e sospesi a delle pertiche per la stagionatura.

Viene definito friscu (Fresco)il formaggio fino a 20-25 giorni dalla produzione.

Viene definito musciu (semistagionato)il formaggio da 20 giorni fino a 90 giorni di stagionatura.

Viene definito siccu (stagionato) il prodotto da 7 mesi a 18 mesi di stagionatura.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

I locali di produzione sono laboratori artigianali e locali domestici per la stagionatura, Caselle dei pastori (vecchie cascine in pietra con tetto in legno e coppi normalmente terranee e di modesta altezza interna) o cantine, tali da garantire temperatura (8-15°) ed umidità (60-80%) pressoché costanti. Le attrezzature sono costituite da caldaie in acciaio inox o rame, telo di cotone per il prelievo della cagliata dalla caldaia, Remenatora in legno di faggio, Tinozza di legno di ciliegio, corda in rafia per la stagionatura.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Questo prodotto per essendo un classico di tutto il Mezzogiorno ha nella produzione dell’area in esame delle peculiarità non riscontrabili in altre aree si è incardinato nel Matese si dai tempi del Regno delle due Sicilie e da sempre è tra i formaggi più prodotti e consumati. Con la costituzione del catasto Onciario del comune di San Gregorio Matese nel 1584 la popolazione fu divisa in pochi ceppi che erano tutti pecorai, braccianti e vaccari. In quei tempi tutto il latte prodotto veniva trasformato in formaggio per poterlo conservare a lungo e utilizzare quale merce di scambio con le popolazioni della valle del Volturno.

Caciocavallo silano D.O.P.

Il Caciocavallo Silano DOP è un formaggio semiduro, a pasta filata, prodotto con latte di vacca di diverse razze, tra cui la Podolica, una tipica razza autoctona delle aree interne dell’appennino meridionale. La produzione del Caciocavallo Silano inizia con la coagulazione del latte fresco a una temperatura di 36-38°C, usando caglio di vitello o di capretto. La fase di maturazione consiste in un’energica fermentazione lattica, la cui durata varia in media dalle 4 alle 10 ore e può dirsi completata quando la pasta è nelle condizioni di essere filata. Segue un’operazione caratteristica, consistente nella formazione di una specie di cordone, che viene plasmato fino a raggiungere la forma definitiva.La forma, sferica, ovale o troncoconica, varia secondo le diverse aree geografiche di produzione. Il peso è compreso fra 1 e 2.5 kg. La crosta, sottile, liscia, di marcato colore paglierino in superficie, può manifestare la presenza di leggere insenature dovute ai legacci. La pasta si presenta omogenea o con lievissima occhiatura, di colore bianco o giallo paglierino. Il sapore è inizialmente dolce fino a divenire piccante a stagionatura avanzata.Il Caciocavallo Silano può essere consumato come formaggio da tavola o utilizzato come ingrediente per tantissime ricette tipiche dell’Italia meridionale. Grazie alle sue qualità nutritive, è particolarmente adatto alle diete dei bambini, degli anziani e degli sportivi.

Cenni storici

La tesi più accreditata sull’origine della denominazione “caciocavallo” la fa derivare dalla consuetudine di appendere le forme di formaggio, in coppie, a cavallo di pertiche di legno, disposte in prossimità di focolari. Il primo autore che descrive la tecnica usata dai greci nella preparazione del cacio è Ippocrate nel 500 a.C. In seguito diversi autori latini, fra cui Columella e Plinio, hanno trattato dei formaggi nelle proprie opere. In particolare, Plinio esalta le qualità del “butirro”, antenato del nostro caciocavallo, definito “cibo delicatissimo”. La denominazione “Silano” deriva, invece, dalle origini antiche del prodotto legate all’altipiano della Sila.

Area di produzione

La produzione di questo formaggio è localizzata nelle aree interne delle regioni Calabria, Basilicata, Campania, Molise e Puglia. In Campania sono interessate, parzialmente, tutte le province.

Dati economici e produttivi

Il Caciocavallo Silano DOP rappresenta una quota di mercato nazionale pari allo 0.4% dei formaggi DOP. La produzione del 2001 è stata di 18100 qli di questi 1400 qli sono stati prodotti in Campania. Il prodotto viene venduto principalmente presso la grande distribuzione organizzata ed i supermercati che cumulativamente assorbono circa l’80%. Il dettaglio tradizionale rappresenta il 17% del totale della domanda mentre il 3% riguarda la vendita diretta presso i caseifici. Nel 2003, le aziende aderenti al sistema di certificazione sono state 36 (di cui 9 campane) per una produzione controllata e certificata pari 1.081.568 kg (80.779 in Campania) corrispondenti a n. 617.746 forme di caciocavallo (60.689 in Campania).

Registrazione e tutela

 

La Denominazione di Origine Protetta (DOP) “Caciocavallo Silano” è stata riconosciuta conRegolamento (CE) n. 1236/96 (pubblicato sulla GUCE n. L 163/96 del 2 luglio 1996). Il riconoscimento nazionale era avvenuto con DPCM 10 maggio 1993 pubblicato sulla GURI n. 196 del 21 agosto 1993 unitamente all’allegato Disciplinare di produzione. Con successivo Regolamento (CE) n. 1204/2003 del 4 luglio 2003 (GUCE n. L168 del 5.07.03) sono state approvate alcune modifiche al disciplinare, relativamente alla zona geografica, al metodo di ottenimento, all’etichettatura e alle condizioni nazionali del prodotto (le modifiche al disciplinare sono state pubblicate sulla G.U. n. 253 del 30.10.2001, pag. 58).

L’organismo di certificazione autorizzato è l’Is.Me.Cert. (Istituto Mediterraneo per la Certificazione dei prodotti e dei processi nel settore agroalimentare), Corso Meridionale, 6 80143 Napoli tel. 081.5636647 – fax: 081.5534019 (sito web:www.ismecert.it).

Il Consorzio di Tutela “Formaggio Caciocavallo Silano DOP” è stato costituito nel 1993 in Calabria ed è stato riconosciuto dal MIPAAF con DM 18 agosto 2006 (pubblicato sulla G.U. n. 200 del 29.08.2006) in base all’art. 14 della legge 526/99 per la tutela, vigilanza e valorizzazione del prodotto.

La sede principale è a Spezzano della Sila (CS), località Camigliatello (tel. e fax: 0984.570832); la sezione regionale campana si è costituita nel 1997 ed è sita a Montesano sulla Marcellana (SA), contrada Tempa La Manda; tel. e fax 0975.863212. Sito web: www.caciocavallosilano.net

Calzoncelli

I calzoncelli, detti anche “pasticelle di Natale”, sono dei dolci che vengono confezionati, durante il periodo natalizio in tutta la regione, ed in particolare nella provincia di Salerno, nel Sannio Beneventano ed in Irpinia. Sono dei piccoli fagottini fritti di sottilissima pasta preparata con farina, zucchero, vino bianco, sale e uova, confezionati a forma di mezzaluna o rotondi e ricoperti di zucchero a velo. Il ripieno dei calzoncelli è costituito da prodotti locali: cioccolato, pinoli, pere secche, cacao, caffé, aromi, e purea di castagne, il tutto con aggiunta di zucchero. Il bordo delle pasticelle è irregolare e può avere diverse forme dettate dalla fantasia; il gusto è fortemente caratterizzato dalla purea di castagne, che ne costituisce l’ingrediente caratteristico, tanto che spesso non si aspetta il periodo natalizio per prepararli, ma si comincia con la prima caduta delle castagne.

Cardillo

Denominazione del Prodotto: Cardillo

Territorio interessato alla produzione:

aree interessate alla coltivazione della vite e dell’olivo delle provincie di Avellino, Benevento e Caserta

Descrizione sintetica prodotto:

Il Cardillo è un’erba spontanea, vivace, corrispondente alle specie del genere Sonchus asper (nel Sannio) o oleraceus (Irpinia); vengono anche consumate le specie tenerrimus, maritimus ed arvensis. si sviluppa su terreni lavorati con una rosetta di foglie lanceolate, con spine ai margini, con fittone sviluppato. si consumano le foglie giovani.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

cresce spontaneo nei terreni coltivati e lavorati, dove viene attivamente ricercato e raccolto in primavera, prima dello sviluppo dello scapo fiorale, per essere utilizzato cotto, anche assieme a fagioli e crostini di pane raffermo.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

viene tagliata la rosetta all’altezza del colletto; è pianta vivace che ricaccia più volte prima di sviluppare lo scapo fiorale.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

viene utilizzato per zuppe e minestre (pane cotto), con legumi e patate, prima lessato e poi soffritto con aglio e peperoncino piccante, oppure nella minestra maritata con altre verdure spontanee (borragine, scarole, torzelle) anche per condire pasta fatta in casa (cicatielli o fusilli).

Carne di suino di razza casertana

La casertana è universalmente riconosciuta come una tra le migliori popolazioni suine autoctone italiane, anticamente definita dagli esperti “l’orgoglio suino italiano”. Nel 1899 il prof. Baldassarre, dell’allora Regio Istituto Superiore per l’Agricoltura di Portici, esaminando antiche raffigurazioni di suini e cinghiali rinvenute negli scavi archeologici di Capua, Pompei ed Ercolano, suppose di individuare le caratteristiche dell’odierno suino “casertano”‘, probabilmente, quindi, già allevato in epoca romana. Il suino casertano non è una “razza”, ma un “Tipo Genetico Autoctono Antico” (TGAA), caratterizzato da un colore grigio ardesia del manto e dall’assenza di setole, da cui il nome tradizionale di “pelatella”. Altra particolarità del suino TGAA casertana sono le cosiddette “sciuccaglie”, due bargigli che gli pendono ai lati della gola. Il suino casertano si distingue nettamente, quindi, dai cosiddetti “maiali neri”, come i tipi romagnola, calabrese o nera dei nebrodi. Antichissimo e assolutamente singolare, questo suino è da secoli allevato allo stato semibrado nei boschi del Casertano e del Beneventano, dove si nutre di ghiande, castagne e altri vegetali del sottobosco, ma non disdegna qualsiasi altro tipo di alimento che riesce, a scovare con il suo muso allungato. Immancabile tra gli animali allevati delle famiglie contadine, è capace di ingurgitare e di “valorizzare” ogni sorta di scarto vegetale, pastone o brodaglia, trasformando qualsiasi rifiuto organico in proteine a elevato valore alimentare. Macellato tra gennaio e febbraio, nel periodo più freddo dell’anno, costituiva un’insostituibile riserva di energia per affrontare i rigori invernali. L’abbondante grasso addominale prodotto dal maiale casertano veniva e viene ancora utilizzato per fare la cosiddetta “sugna”, il condimento base nella cucina tradizionale contadina, insostituibile per confezionare alcuni prodotti da forno campani (taralli nzogna e pepe, casatielli, torte rustiche), ottima per rendere più morbida e saporita la pasta per la pizza, eccellente per conservare le tipiche “salsicce sotto sugna” del casertano. Nel secondo dopoguerra il suino casertano venne soppiantato dai più magri e produttivi suini bianchi di origine anglo-americana, cosa che gli costò pressoché l’estinzione. Spesso confuso o incrociato con altri tipi di suini autoctoni, è stato recentemente rivalutato per la particolare gustosità delle sue carni. In particolar modo nelle province di Caserta e di Benevento, sotto l’impulso di un meritato riscatto per certi versi anche “culturale”, si sta verificando un rinnovato interesse per il suino casertano per i cui prodotti, freschi o trasformati, è in itinere l’ottenimento della DOP. Dal punto di vista alimentare, la caratteristica più pregiata e tipica del suino casertano è la “marezzatura” delle carni, ossia la presenza di abbondante tessuto connettivo intramuscolare, che conferisce una particolare sapidità e morbidezza alle carni. Per tale motivo il suino TGAA casertano è molto ricercato per la carne fresca, da consumarsi in ogni modo e in diversi tagli (prosciutto di coscia e di spalla, costatelle, tracchie), ma anche per confezionare i pregiati salumi tradizionali campani (salsicce, capocolli, pancette, soppressate, prosciutti).

Carne ovina di laticauda

Lata cauda, la “grande coda” è la caratteristica fisica più evidente di questa pecora, dalla quale la razza prende il nome. soprattutto nelle province di Benevento, Avellino e Caserta, la razza laticauda è stata originata, verosimilmente, da un incrocio della pecora appenninica, tipica dell’Italia meridionale, con la pecora Nord-Africana, Berbera o Barbaresca, importata in Campania dai Borboni ai tempi di Carlo III. Tornando alla coda da cui prende il nome, essa non è altro che una sorta di “sacca” che accumula grasso durante la stagione di abbondanza di pascoli e lo sfrutta nei periodi di magra per garantire il nutrimento alla prole. Proprio questa caratteristica rende preziosa la carne della pecora lauticauda: infatti, accumulando il grasso nella coda, ne ha di meno nel resto del corpo, cosicché le sue carni risultano più magre e povere di colesterolo. Questa caratteristica è stata apprezzata solo di recente, poiché la lauticauda veniva allevata in modo stanziale, in piccoli greggi tenuti nei pressi delle fattorie e utilizzata soprattutto per la produzione di formaggio in quanto, per la sua mole è inadatta per la transumanza. Dopo aver rischiato l’estinzione, nei primi anni ’90 è stata recuperata con successo, apprezzata per le caratteristiche alimentari delle carni, saporite e prive dell’odore tipico degli ovini. Grazie a quest’azione di valorizzazione, si sono rapidamente diffusi molti allevamenti, di cui almeno trenta con più di cento capi, che seguono precise regole: di tipo semibrado, con alimentazione pascolativa integrata con fieno di lupinella ed erba medica, paglia di avena e orzo, sfarinati di cereali e fave.

Carrati

Territorio interessato alla produzione: Comuni di Pietraroja e Cerreto Sannita

Descrizione sintetica prodotto:

pasta fresca di grano duro realizzata con rettangoli di pasta arrotolati su un ferretto, di lunghezza variabile.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Gli ingredienti sono farina di semola di grano duro, sale q.b., acqua; si lavorano insieme realizzando la cosiddetta “laina” o sfoglia dello spessore di 2-3 mm, da cui si ricavano dei rettangoli larghi 3 cm circa e di lunghezza variabile, che vengono arrotolati (trainati o “carriati”, da cui il nome con un veloce gesto delle dita utnite attorno ad un ferro di diametro pari a 1-2 mm; il movimento è caratteristico (avanti-indietro) poi si sfila il carrato. Il ferretto è patrimonio di ogni famiglia e fa parte del corredo delle spose. all’impasto possono essere aggiunte semola e/o uova vengono conditi con ragù di pecor o gallina, ragù di carciofi ripieni (ripieno a base di pane, formaggio, prosciutto, uova, aglio e prezzemolo) soffritti e messi a bollire in salsa di pomodoro; ragù di pomodoro con pecorino stagionato e noci. I carrati rapresnano, soprattutto nella tradizione pietrarojana un cibo rituale, connesso alla stagione di semina del grano: la lunghezza del carrato, dovuta all’abilità della massaia, era direttamente proporizonale alla lunghezza delle future spighe. Nei campi i carrati venivano offerti ai mietitori conditi con aceto ed alio, o nei giorni di magro, con ricotta e noci, in bianco.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

– filo di ferro a sezione tonda di sezione   mm 1,5 a  mm. 2,0 (tipo ferro da calza);
– piano di legno faggio (spianatoia)

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Risulta una tradizione consolidata, almeno centennale, pepetuata sia a livello familiare sia dalla ristorazione tipica locale.

Caso Maturo del Matese

Territorio interessato alla produzione

Comune di San Gregorio Matese.

Descrizione sintetica prodotto

Formaggio di pecora a pasta compatta, friabile, priva di occhiature, di colore giallo paglierino carico. La forma è cilindrica con facce piane e scalzo leggermente convesso. Il diametro delle forme va dai 10 ai 15 cm. Il peso in relazione alle dimensioni delle forme varia dai 500 g. a 1,5 kg. Alla vista si presenta con crosta consistente, color nocciola carico, rugosa e umida, caratterizzata dal non perfetto simmetrismo dovuto alla sovrapposizione delle forme durante la maturazione. Il sapore è deciso e caratteristico dei prodotti stravecchi, al palato è delicato tendenzialmente piccante.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Il latte destinato alla produzione proviene dalla doppia mungitura (sera e mattina) delle pecore allevate nell’area di produzione. Esse vengono alimentate con pascolo di montagna ed integrazione di cereali e foraggi del posto. Il latte intero viene coagulato ad una temperatura di 35° con l’aggiunta di caglio di vitello liquido. La rottura della cagliata avviene dopo circa 30 minuti, è fatta manualmente o con spini rompicagliata in legno o acciaio inox fino ad ottenere grumi di dimensioni da una nocciola ad un chicco di mais. La cagliata così sosta sotto siero per circa 10 minuti quindi viene estratta manualmente e messa in fuscelle canestrate di plastica o di vimini. La salatura viene fatta a secco con sale medio per sfregatura sulla superfice dopo circa due ore dalla formatura. Dopo 7 giorni viene rimosso dalle forme e messo ad asciugare su tavolati di legno di faggio o graticciati dove periodicamente e all’occorrenza, durante la stagionatura, viene unto con olio d’oliva. Trascorso un periodo minimo di stagionatura di sei mesi nei locali tradizionali viene messo a maturare in contenitori di terracotta smaltata o altro materiale idoneo, in cui sono sovrapposti e sul cui fondo viene posto olio d’oliva con erbe spontanee, dove permane per un minimo di altri sei mesi, durante i quali il formaggio subisce una rifermentazione ed una maturazione dei costituenti tale da conferirgli quelle caratteristiche sopra descritte.
Le fasi della lavorazione sono le seguenti:
– mungitura del latte crudo  e riscaldamento a 35°C;
– Aggiunta di caglio liquido;
– Rottura cagliata;
– Maturazione cagliata sotto siero madre;
– Estrazione del siero;
– separazione della cagliata e pressatura nelle fuscelle;
– Salatura delle superfici con sale alimentare a grana media;
– Asciugatura su piani in legno o graticci;
– Stagionatura in  locali freschi tradizionali, denominati caselle;
– Maturazione in recipienti non trasparenti alla luce, sigillati, in materiale vario.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

– Laboratori artigianali e locali tradizionali di stagionatura (caselle poste ad alta quota, realizzate in muratura di pietra, pavimenti in cotto e tetti in legno e coppi, normalmente parzialmente interrate e di modesta altezza interna) tali da garantire temperatura (8-15°) ed umidità (60-80%) pressoché costanti.
– Contenitori e piani d’appoggio in acciaio;
– caldare in acciaio inox o rame stagnato;
– Attrezzi di lavorazione in legno
– cucchiai di legno per rimescolamento della pasta
– Locali tradizionali per asciugatura  e stagionatura;
-recipienti in terracotta smaltata o altro materiale idoneo, per la maturazione.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Il prodotto è ampiamente conosciuto nell’area interessata ed è sicuramente trasformato da almeno 25 anni come accertato attraverso testimonianze raccolte in zona.

Castagna Jonna di Civitella Licinio

Denominazione del Prodotto

Castagna Jonna di Civitella Licinio

Territorio interessato alla produzione

Località Fontanelle, Pisciarelli, Campate, Cese, Faito della frazione Civitella Licinio (Comune di Cusano Mutri) (BN)

Descrizione sintetica prodotto

La pianta si presenta di grandi dimensioni, a portamento libero, innestata su polloni scelti direttamente in campo, a gemma o a spacco. La castagna ha dimensioni notevoli (40-50 frutti per Kg), con buccia di colore marrone chiaro con striature poco evidenti, da cui il nome (Jonna = Bionda o Giallanella = di colore giallo). L’episperma (pellicola interna) avvolge in modo regolare la polpa, che non è settata; da questo deriva la facile pelabilità dei frutti privati dall’epicarpo e la spiccata attitudine per la produzione di maron glaces.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

L’allevamento tradizionale con forma naturale, assenza di trattamenti fitosanitari e di concimazione, mantenimento di ottime condizioni di naturalità, con presenza di inerbimento naturale; le cure colturali si riducono alla preparazione pre raccolta, con lo sfalcio del sotobosco e la bruciatura dei residui colturali (ricci e foglie) dell’anno precedente previa rastrellatura. mediamente resistene al cancro corticale, nonché al cinipide del castagno, che viene tollerato in modo sufficiente rispetto ad altre varietà presenti nella zona. I sesti sono variabili, con una densità che è in media di 60-70 piante/ha. La raccolta avviene al suolo in autunno (dall’ultima settimana di settembre alla prima di novembre, secondo la posizione del castagneto); solo in alcuni casi vengono adoperate soffiatrici per allontanare le foglie secche dalle castagne. Dopo la raccolta, vengono eliminate quelle attaccate da parassiti (bucate) ed attualmente direttamente vendute senza alcun trattamento, destinate al mercato regionale e nazionale, oppure trasformate da laboratori locali in prodotti dolciari tipici. La resa è di circa 30-40 qli/ha (prima della cernitura); i quantitativi attualemnte prodotti, con notevole variabilità da un anno all’altro, sono compresi fra i 1500 ed i 2000 qli. In passato venivano conservate, senza estrarle dai “ricci”, in fosse realizzate direttamente nel castagneto, dette “ricciaie”, e quindi ricoperte con strati di felci (athyrium filix-femina) e di terreno. In alternativa, veniva adoperata sabbia di fiume. Ciò permetteva di conservare le castagne per diversi mesi.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

Sacchi di juta o di tessuto plastico, rastrelli, soffiatrici.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

La cultivar è specifica dell’areale e costituiva assieme all’allevamento ovicaprino, alla produzione di carbone, alle patate, all’olivo ed alla vite il cardine dell’economia locale.

Castagne del prete, Castagne infornate, Castagne mosce

Le castagne del prete (in foto) sono un prodotto tipico delle feste natalizie; anticamente venivano preparate solamente in Irpinia, nell’Avellinese, zona nota per la coltivazione castanicola, utilizzando i forni presenti nelle abitazioni rurali. Oggi sono conosciute anche nel resto della Campania, ma la loro tecnica di produzione è rimasta invariata: in locali detti “gratali”, le castagne fresche ancora con il guscio, vengono disposte su graticci di legno, al di sotto dei quali si accendono i fuochi alimentati da legna di castagno. Il fuoco deve essere lasciato acceso per 15 giorni, in modo tale da fare seccare completamente le castagne, che dopo vanno tostate in forno per 30 minuti circa. A questo punto, per farle insaporire e reidratare, vengono immerse in cassoni di plastica pieni di acqua o di acqua e vino. Si dicono castagne “infornate” o “nvornate”, quando vengono sgusciate prima di essere poste sul fuoco. Quando, invece, le castagne sono caratterizzate da un’alta percentuale di umidità, nonostante la permanenza sui graticci, rimangono “mosce” e, una volta tolte dal fuoco, vengono infilate ad uno spago, a mo di rosario ed appese in attesa di essere consumate. Le castagne mosce o “tenerelle”, nate come castagne del prete mal riuscite oggi si preparano di proposito, poiché sono assai richieste dal mercato, essendo molto saporite e zuccherine, oltre che conservabili per diversi mesi.

Casu ré pecóra del Matese

Sinonimi e/o termini dialettali

Pecorino del Matese

Territorio interessato alla produzione

Aree montane del Matese

Descrizione sintetica prodotto

Formaggio di pecora a pasta morbida con struttura compatta e rarissime occhiature. Se ne differenziano tre tipologie:
– Fresco (Friscu);
– Semistagionato (Musciu);
– Stagionato (Siccu).

Il fresco si riconosce per sapore dolce con pasta bianca e morbida. Il semistagionato con pasta quasi cremosa di colore leggermente paglierino e sapore dolce sui generis. Il secco con pasta compatta di colore giallo paglierino, sapore deciso e tendenzialmente piccante. La forma è cilindrica con facce piane e scalzo leggermente convesso. Il diametro delle forme va dai 10 ai 15 cm. Il peso in relazione alle dimensioni delle forme varia dai 500 g. a 1,5 kg. Alla vista si presenta: il fresco con crosta bianca segnata dalle forme canestrate, il semistagionato ha una crosta quasi liscia di colore giallo paglierino, il secco si presenta con crosta ruvida di colore bruno.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Il latte destinato alla produzione proviene dalla doppia mungitura (sera e mattina) delle pecore allevate nell’area di produzione. Esse vengono alimentate con pascolo di montagna ed integrazione di cereali e foraggi del posto. Il latte intero viene coagulato ad una temperatura di 35° con l’aggiunta di caglio di vitello liquido. La rottura della cagliata avviene dopo circa 30 minuti, è fatta manualmente o con spini rompicagliata in legno o acciaio inox fino ad ottenere grumi di dimensioni da una nocciola ad un chicco di mais. La cagliata così sosta sotto siero per circa 10 minuti quindi viene estratta manualmente e messa in fuscelle canestrate di plastica o di vimini. La salatura viene fatta a secco con sale medio per sfregatura sulla superfice dopo circa due ore dalla formatura. Dopo 7 giorni viene rimosso dalle forme e messo ad asciugare su tavolati di legno di faggio o graticciati dove periodicamente e all’occorrenza, durante la stagionatura, viene unto con olio d’oliva.
Viene definito friscu (Fresco)il formaggio fino a 7 giorni dalla produzione.
Viene definito musciu (semistagionato)il formaggio prodotto da 7 giorni fino a 90 giorni di stagionatura;
Viene definito siccu (stagionato) il prodotto da 90 giorni di stagionatura in poi.
Le fasi della lavorazione sono le seguenti:
– mungitura del latte crudo  e riscaldamento a 35°C;
– Aggiunta di caglio liquido;
– Rottura cagliata;
– Maturazione cagliata sotto siero madre;
– Estrazione del siero;
– separazione della cagliata e pressatura nelle fuscelle;
– Salatura delle superfici con sale alimentare a grana media;
– Asciugatura su piani in legno o graticci;
– Stagionatura in  locali freschi tradizionali, denominati caselle.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

– Laboratori artigianali e locali tradizionali di stagionatura (caselle poste ad alta quota, realizzate in muratura di pietra, pavimenti in cotto e tetti in legno e coppi, normalmente parzialmente interrate e di modesta altezza interna) tali da garantire temperatura (8-15°) ed umidità (60-80%) pressoché costanti.
– Contenitori e piani d’appoggio in acciaio;
– caldare in acciaio inox o rame stagnato;
– Attrezzi di lavorazione in legno
– cucchiai di legno per rimescolamento della pasta
– Locali tradizionali per asciugatura  e stagionatura.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Il prodotto è ampiamente conosciuto nell’area interessata ed è sicuramente trasformato da almeno 25 anni come accertato attraverso testimonianze raccolte in zona.

Cavolo da minestra

Denominazione del Prodotto

CAVOLO DA MINESTRA

Sinonimi e/o termini dialettali

Vruoccolo d”a Santella

Territorio interessato alla produzione

Area del Titerno, comuni di Cerreto Sannita, Cusano Mutri, Pietraroja (BN)

Descrizione sintetica prodotto

Cavolo (Brassica oleracea L.) simile al cavolo cappuccio ma con disposizione delle foglie aperte, di cui si utilizzano appunto le foglie, caratterizzate dall’assenza di cuticola cerosa.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

La coltivazione avviene in modo tipo tradizionale, con semina in semenzaio, a spaglio, con seme autoprodotto, in aprile, appena le condizioni climatiche lo consentono. La raccolta delle foglie è scalare, secondo le necessità, e la produzione si protrae fino ai freddi autunnali ed oltre.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

Normali attrezzature per la coltivazione degli ortaggi.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Le foglie, raccolte scalarmente, sono prive di cuticola cerosa evidente il che le rende adatte al consumo umano, sia come ingrediente fondamentale di minestre, sia come mezzo estemporaneo di cottura (ad esempio, del parrozzo o anche delle salsiccie sotto la cenere). Diffusa nell’orticoltura di montagna, per la resistenza a gelate tardive ed al clima rigido.

Cipolla alifana

La cipolla “Alifana” presenta caratteristiche organolettiche particolarmente apprezzate soprattutto sui mercati della provincia di Caserta e del Basso Lazio; il colore è ramato intenso, la forma è sferoidale fortemente schiacciata ai poli; pezzatura media (peso medio 200 gr fino a 400 gr); ha sapore dolce, intenso, aromatico ma non acre; ottima consistenza, polpa croccante e soda, bianca con sfumature violacee; ha spiccata attitudine alla conservazione nelle caratteristiche “‘nzerte” (realizzate intrecciando le foglie essiccate di 12-13 fino a 20 cipolle secondo le dimensioni, che vengono quindi mantenute fino alla vendita).

La riproduzione avviene per bulbilli, che vengono posti in semenzaio in agosto-settembre e quindi trapiantati in pieno campo in febbraio-marzo. La maturazione avviene in luglio – agosto; l’essiccazione fogliare avviene in campo; in una fase intermedia dell’essiccazione, con le foglie appassite, si realizza la “‘nzerta”; quindi le treccie vengono poste al sole per il completamento dell’essiccazione. La conservazione avviene su graticci realizzati in canna e posti verticalmente appoggiati a pareti, in posizione ombreggiata (pergolato o tettoia), in attesa di essere poi commercializzate, dopo un periodo di 20 – 30 giorni. All’atto della vendita le cipolle restano in genere confezionate nelle “‘nzerte” , pronte per il consumo familiare che può procrastinarsi anche per sette-otto mesi. Secondo l’esperienza degli agricoltori locali l’attitudine alla conservazione è un carattere desumibile nella fase di scelta delle piante madri il che permette di poter selezionare i bulbilli migliori a tale scopo.

Le pratiche colturali nell’ultimo trentennio hanno conservato la loro tradizionalità e sono uniformemente diffuse sul territorio in esame. Lo stesso prodotto nell’arco di tutto questo tempo ha conservato, altresì, le sue caratteristiche di qualità; le modalità di conservazione e di presentazione alla vendita restano immutate ancora oggi. La cipolla alifana per le sue caratteristiche ha trovato impiego nella cucina tradizionale locale, per la preparazione di minestre assieme a fagioli, sedano, carota, olio extravergine di oliva, dette “cipollata”.

Fagiolo di cera

Sinonimi e/o termini dialettali: LATTINO

Territorio interessato alla produzione

fascia pedemontana del massiccio del Matese, dal comune di Alife (CE) fino a Pontelandolfo (BN)

Descrizione sintetica prodotto

Ecotipo locale con baccello cilindrico, leggermente schiacciato, di colore verde; seme (6-7 per baccello) di forma reniforme accentuata, con cicatrice ilare appena sottolineata da una sfumatura scura del colore, che uniforme, di avorio antico. dimensioni medie, buccia sottilissima, pasta bianca a grana fine; ricco di amido, con la cottura scurisce assumendo toni di marrone molto scuro; sapore tendenzialmente dolce, delicato, persistente. pianta a portamento eretto, sviluppo determinato e limitato, fiore viola chiaro.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Viene coltivato in asciutta con semina ad inizio giugno (festivitdi S. Antonio di Padova e raccolto a fine agosto. viene estirpata ed essiccata tutta la pianta su graticci sospesi da terra; non necessita di sostegni, la resa di 6-7 qli/ha di prodotto essiccato. prima del raccolto vengono prelevati scalarmente i baccelli verdi, che vengono consumati in insalata previa cottura.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

Normali attrezzature di coltivazione; graticci di giunco o olivo per l?ssiccazione dei baccelli dopo la raccolta; sacchetti di tela grezza a trama grossolana per la conservazione.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Viene utilizzato per zuppe e minestre (pane cotto), sia sotto forma di legumi essiccati sia come baccello verde; i legumi essiccati vengono accompagnati ad un particolare tipo di pasta nel piatto denominato “quagliatella”. Le regole di coltivazione rispecchiano la tradizione colturale dell’area, estensiva e legata al consumo familiare e locale.

Fagiolo di Gallo Matese

Territorio interessato alla produzione: altopiano del matese, comuni di S. Gregorio, Gallo e Letino (CE)

Descrizione sintetica prodotto:

Ecotipo locale con baccello di colore ocra e dimensioni piccole; i legumi sono di colore bianco, piccolicon cicatrice ilare mediamente evidente, di forma depressa, reniforme non accentuata, buccia sottile, sapore delicato, elevata digeribilit la pianta a portamento rampicante, ad accrecimento indeterminato, alta 1 metro, tradizionalmente tutorata al mais rosso locale, fiore di colore bianco.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Viene coltivato in asciutta con semina a maggio, in ragione di due semi assieme ad un seme di mais, a 50 cm sulla fila e distanze variabili fra le file; la raccolta avviene ad agosto; non necessita di irrigazione in quanto resistente alla siccità ed è anche resistente alle gelate; la raccolta viene fatta a mano, la maturazione scalare (ogni 2-3 giorni si raccoglie). l’essiccazione avviene su teli di canapa, quindi vengono battuti i baccelli ormai secchi e raccolti i legumi; questi vengono poi esposti al gelo invernale come prevenzione dall’attacco del tonchio. La resa è di 5-6 qli/ha di prodotto essiccato.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

Normali attrezzature di coltivazione; teli di canapa per l’essiccazione dei baccelli dopo la raccolta; sacchetti di tela grezza a trama grossolana per la conservazione.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Viene utilizzato per zuppe e minestre con erbe spontanee e patate, oppure con il “frattaccio”, polenta raffreddata e tagliata in pezzi schiacciati. Le regole di coltivazione rispecchiano la tradizione colturale dell’area, estensiva e legata al consumo familiare e locale.

Fiordilatte

Il fiordilatte è un formaggio fresco a pasta filata che vanta in Campania antiche tradizioni; quello più famoso è di Agerola, cittadina nota già ai tempi di Galeno per la produzione di “latte molto salutare”. Per produrre il fiordilatte si è sempre utilizzato latte vaccino di altissima qualità, proveniente da una o più mungiture consecutive, che viene consegnato crudo al caseificio entro 24 ore dalla prima mungitura. La lavorazione è quella comunemente utilizzata per la mozzarella vaccina, dalla quale si discosta per forma e consistenza della pasta. La forma è variabile, tondeggiante anche con testina, nodino, treccia e parallelepipedo, a seconda dell’area di provenienza. Si presenta privo di crosta, di color bianco-latte con sfumature paglierine, ha una pelle tenera e una superficie liscia, lucente e omogenea, la sua consistenza è morbida e rilascia al taglio un liquido lattiginoso, omogeneo e caratteristico; il suo sapore è molto fresco, di latte delicatamente acidulo.

Formaggio duro di latte di pecora, capra e vacca

Territorio interessato alla produzione

Aree montane del Matese Beneventano, comune di Cusano Mutri ed aree limitrofe

Descrizione sintetica prodotto

Formaggio a pasta dura, prodotto con latte proveniente da allevamenti di piccole e medie dimensioni, da bovine in prevalenza di razza bruna o pezzata rossa italiana, capre e pecore di razze locali, con stagionatura media (da 2 a 6 – 12 mesi), che avviene in locali aereati di tipo tradizionale, in area montana. Colore della pasta giallo paglierino molto chiaro, variabile con la stagione di produzione; crosta color giallastra quindi nocciola chiaro, tendente a scurirsi con l’avanzare della stagionatura. consistenza elastica prima e quindi granulosa con cristalli proteici evidenti, e frattura a scaglie.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

la caseificazione avviene utilizzando latte vaccino non scremato, di pecora e capra, in quantità variabili; una proporzione tipica del periodo primaverile, prevede circa il 70% di latte vaccino, 20% di pecora ed il restante 10% di capra. La proporzione però sembre risentire della contrazione che l’allevamento di capra ha subito nell’area di produzione. Il latte, appena munto, viene addizionato di caglio di capretto, prodotto in azienda, e riscaldato a 37-38 °C per 1,5 – 2 ore; la cagliata viene rotta con un mestolo dal lungo manico, di acero o faggio, poi si procede ad una ulteriore affinamento della rottura con le mani, fino a raggiungere le dimensioni volute (inferiori al chicco di riso); si separa il siero dopo una breve sosta e si pone la cagliata nelle fuscelle, tradizionalmente di vimini, e si pressa in porzioni da 1-2 Kg., si salano con sale alimentare sulle due facce, si asciugano su piani inclinati in legno per 2-3 giorni, e  quindi si pongono a stagionare in locali tradizionali, solitamente ubicati in montagna, ad altitudini superiori ai 1000 m. slm, in appositi armadi dotati di ampie aperture protette da reti sottili. In alternativa si ricorre all’immersione in salamoia. La pasta è di colore giallo mielato che tende ad accentuarsi con la stagionatura, con rare occhiature, al tatto morbida ed omogenea; la crosta resta elastica, prima giallo paglerino poi castano, lucida per i periodici lavaggi con acqua e aceto e successive oliature.

Le fasi della lavorazione sono le seguenti:
– mungitura del latte crudo;
– Aggiunta di caglio di capretto;
– Riscaldamento a 37 – 38°C per 1-2 ore;
– Rottura cagliata;
– breve maturazione cagliata sotto siero madre;
– Estrazione del siero;
– separazione della cagliata e pressatura nelle fuscelle;
– Salatura delle superfici con sale alimentare o per immersione in salamoia;
– Asciugatura su piani inclinati in legno;
– Stagionatura in  locali freschi tradizionali.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

– Laboratori artigianali e locali tradizionali di stagionatura
– Contenitori e piani d’appoggio in acciaio
– Attrezzi di lavorazione in legno
– cucchiai di legno per rimescolamento della pasta
– Locali tradizionali per asciugatura  e stagionatura.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Il prodotto è ampiamente conosciuto nell’area interessata ed è sicuramente trasformato da almeno 25 anni come accertato attraverso testimonianze raccolte in zona.

Formaggio morbido del Matese

Territorio interessato alla produzione

Aree montane del Matese Beneventano, comune di Pietraroja ed aree limitrofe

Descrizione sintetica prodotto

Formaggio a pasta tenera, pastosa, prodotto con latte proveniente da allevamenti di piccole e medie dimensioni, da bovine in prevalenza di razza bruna o pezzata rossa italiana, con stagionatura media (da 10 giorni a 2-3 mesi), che avviene in locali aereati di tipo tradizionale.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

la caseificazione avviene utilizzando latte vaccino non scremato, appena munto, la mattina; viene addizionato di caglio di capretto, prodotto in azienda, e, senza riscaldare se non in caso di eccessivo abbassamento della temperatura ambientale, si attende la cagliata che avviene solitamente nel giro di 1-2 ore. La rottura della cagliata avviene senza addizionare di acqua calda e riscaldamento, fino ad una grandezza dei grumi a “chicco di riso”; quindi si lascia ricostituire la massa che si separa dal siero e si deposita sul fondo del recipiente di lavorazione. Quindi, a mano, la cagliata si separa, si lascia sgrondare dal siero residuo, e si pressa in porzioni da 1-2 >Kg nelle fuscelle, di vimini o di plastica per alimenti. si asciugano e si salano sulle due facce, quindi si pongono a stagionare in locali tradizionali, cantine o solai, con sufficiente grado di umidità. La pasta è di colore giallo paglierino  che tende ad accentuarsi con la stagionatura, con rare occhiature, al tatto morbida ed omogenea; la crosta resta elastica e lievemente più scura, con efflorescenze di colore bianco duvuto a muffe per il protrarsi della stagionatura.
Le fasi della lavorazione sono le seguenti:
– mungitura del latte crudo  a temperatura corporea 36C°/38C°;
– Aggiunta di caglio di capretto;
– Rottura cagliata;
– Maturazione cagliata sotto siero madre;
– Estrazione del siero;
– separazione della cagliata e pressatura nelle fuscelle;
– Salatura delle superfici con sale alimentare;
– Asciugatura su piani inclinati in legno; – Stagionatura in  locali freschi tradizionali.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

– Laboratori artigianali e locali tradizionali di stagionatura
– Contenitori e piani d’appoggio in acciaio
– Attrezzi di lavorazione in legno
– cucchiai di legno per rimescolamento della pasta
– Locali tradizionali per asciugatura  e stagionatura.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Il prodotto è ampiamente conosciuto nell’area interessata ed è sicuramente trasformato da almeno 25 anni come accertato attraverso testimonianze raccolte in zona.

Granoturco di Gallo Matese

Sinonimi e/o termini dialettali

MAIS DI GALLO

Territorio interessato alla produzione

altopiano del matese, comuni di S. Gregorio, Gallo e Letino (CE)

Descrizione sintetica prodotto:

Ecotipo locale con pannocchia di dimensioni piccole, raccoricate; cariossidi di colore fortemente aranciato, di dimensioni medio-piccole, di forma ed andamento sul tutolo irregolare. pianta di piccole dimensioni, con produzione di due-tre pannocchie a culmo. Se ne ricava una farina con forte componente vitrea, utilizzata per produrre polente ed il “, polenta raffreddata di consistenza solida, servita al posto del pane ad accompagnare zuppe e minestre, a volte ripassata in padella con olio o strutto.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Viene coltivato in asciutta con semina a maggio, in consociazione con il fagiolo locale, in ragione di un seme di mais ogni due semi di fagiolo, a 50 cm sulla fila e distanze variabili fra le file; la raccolta avviene ad agosto; non necessita di irrigazione in quanto resistente alla siccitla raccolta viene fatta a mano, in concomitanza con quella dei baccelli di fagiolo, la maturazione scalare. l’essiccazione avviene su teli di canapa, le pannocchie vengono conservate sospese e legate fra loro per le bratteee essiccate.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

Normali attrezzature di coltivazione; teli di canapa per l’essiccazione delle pannocchie dopo la raccolta.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Viene utilizzato per l’alimentazione umana e mai per l’alimentazione animale per la produzione di polenta anche nella tradizionale forma del “frattaccio”. Le regole di coltivazione rispecchiano la tradizione colturale dell’area, estensiva e legata al consumo familiare e locale.

Granturco della quarantina

Sinonimi e/o termini dialettali

Grauligno nostrale, quarantina spiga gialla

Territorio interessato alla produzione

Aree del Titerno e del Fortore (BN)

Descrizione sintetica prodotto

Ecotipo locale con pannocchia di dimensioni medio piccole, raccoricate; cariossidi di colore tendente all’aranciato, di dimensioni medio-piccole, di forma ed andamento sul tutolo irregolare. pianta di dimensioni medie, con altezza dai 150/170 cm e con produzione di massimo due pannocchie a culmo. Se ne ricava una farina con forte componente vitrea, utilizzata per produrre soprattutto polenta che può essere servita calda e accompagnata con pomodoro, carni, pancetta, formaggio a seconda della stagione e può essere anche mangiata rafferma. Le cariossidi tipicamente sono macinate a pietra e setacciata con panni di seta.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Viene coltivato in asciutta con semina a maggio, in consociazione con i legumi locali, distanza tra i semi di circa 20/25 cm sulla fila e distanze variabili fra le file; la raccolta avviene ad agosto; non necessita di irrigazione in quanto resistente alla siccità; la raccolta viene fatta a mano, in concomitanza con quella dei baccelli di fagiolo, la maturazione è scalare. l’essiccazione avviene su teli di canapa o tela, le pannocchie vengono conservate sospese e legate fra loro per le bratteee essiccate.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

Normali attrezzature di coltivazione; teli di canapa o tela per l’essiccazione delle pannocchie dopo la raccolta.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Viene utilizzato per l’alimentazione umana e mai per l’alimentazione animale per la produzione di polenta anche nella tradizionale forma del “frattaccio”. Le regole di coltivazione rispecchiano la tradizione colturale dell’area, estensiva e legata al consumo familiare e locale.

Lenticchia di Valle Agricola

Nel Comune di Valle Agricola e nella fascia pedemontana del Massiccio del Matese in provincia di Caserta, si produce in piccole quantità una lenticchia molto pregiata, detta “lenticchia di Valle Agricola”. è un ecotipo locale di medie dimensioni e colore piuttosto scuro. La buccia sottile favorisce la cottura ed esalta il sapore intenso, caratteristico e pregiato. Le regole di coltivazione rispecchiano la tradizione colturale dell’area: infatti i campi non sono molto estesi, continuano ad essere familiari e la lenticchia viene utilizzata soprattutto per il mercato locale, conservata in sacchetti di tela grezza a trama grossolana e sfruttata soprattutto essiccata per la preparazione di piatti della cucina tradizionale locale.

Marzellina

Denominazione del Prodotto: Marzellina

Sinonimi e/o termini dialettali: Ricotta di pecora del Matese, Récotta Sécca

Territorio interessato alla produzione: Aree montane del Massiccio del Matese, nei Comuni di San Gregorio Matese e Castello del Matese

Descrizione sintetica prodotto:

E’ un sottoprodotto del Pecorino del Matese, a pasta soda e compatta di colore bianco e spiccato sapore; forma cilindrica, facce convesse e scalzo dritto, diametro delle facce 3-4 cm altezza dello scalzo 10-15 cm, peso circa 150-200 g, a volte aromatizzate solo in superficie con peperoncino frantumato o “pimpinella” (timo serpillo).

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

E’ ottenuta dalla successiva lavorazione del siero di latte di pecora, residuo della lavorazione del pecorino, appena dopo l’estrazione della cagliata.Estratta la cagliata si riscalda il siero alla temperatura di 85-88°, quindi avviene la flocculazione delle proteine, che affiorano aggiungendosi al grasso presente; la ricotta viene raccolta e versata in fuscelle cilindriche dove permane per 24 ore. Passate le 24 ore viene estratta dalle forme e salata per sfregamento con sale medio e messa ad asciugare su graticciati o tavolati di legno di faggio; successivamente viene conservata in barattoli ermetici con l’aggiunta di poco olio e foglioline di timo serpillo essiccate.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

I locali di produzione sono laboratori artigianali e locali domestici per la stagionatura, Caselle dei pastori (vecchie cascine in pietra con tetto in legno e coppi normalmente terranee e di modesta altezza interna) o cantine, tali da garantire temperatura (8-15°) ed umidità (60-80%) pressoché costanti. Le attrezzature sono costituite da caldaie in acciaio inox o rame, mestolo forato in acciaio inox, tavole in faggio e recipienti di terracotta, vetro o plastica alimentare per la stagionatura.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Questo prodotto è il frutto del lavoro delle popolazioni dei monti del Matese che tradizionalmente e storicamente sono sempre state popolazioni di pastori, testimoniato dal grande numero di aziende ovine e dal numero di pecore presenti fino agli anni 80(circa 50000 capi) il cui latte veniva tutto trasformato in pecorino e venduto o barattato sui mercati campani e non. (Testimonianze di vecchi pastori).

Mela Limoncella e Limoncellona

La mela Limoncella è tuttora diffusa un po’ in tutta la Campania. è un frutto di forma irregolare, tra l’ellissoidale ed il cilindrico di pezzatura medio-piccola; la sua buccia è gialla tendente al verde e presenta numerose lenticelle grosse e rugginose. La sua polpa è bianca, compatta, succosa e aromatica, caratterizzata da un retrogusto leggermente acidulo. Grazie all’ottimo equilibrio nel rapporto fra acidi e zuccheri presenti nella polpa, il frutto si conserva molto bene e riduce di molto il tempo di condizionamento. Una particolarità della limoncella è che è utilizzata anche per produrre un ottimo sidro. Per le sue eccezionali caratteristiche organolettiche è considerata tra le più pregevoli cultivar meridionali di mele. Nell’area Agerolese è coltivato anche un ecotipo simile, a frutto più grosso denominato “Limoncellona“. Si distingue dalla cultivar madre, oltre che per le dimensioni del frutto, anche per il sapore più dolce e aromatico che la rende particolarmente ricercata sul mercato.

Melannurca Campana I.G.P.

Descrizione del prodotto

L’Indicazione geografica protetta “Melannurca Campana” si riferisce ad una delle varietà italiane di melo più conosciute e più apprezzate in assoluto dai consumatori: l’Annurca. Definita la “regina delle mele”, infatti, l’Annurca è da sempre conosciuta soprattutto per la spiccata qualità dei suoi frutti, dalla polpa croccante, compatta, bianca, gradevolmente acidula e succosa, con aroma caratteristico e profumo finissimo, una vera delizia per gli intenditori. Il frutto è medio-piccolo, di forma appiattita-rotondeggiante, leggermente asimmetrica, con picciolo corto e debole. La buccia, liscia, cerosa, mediamente rugginosa nella cavità peduncolare, è di colore giallo-verde, con striature di rosso su circa il 60-70% della superficie a completa maturazione, percentuale di sovraccolore che raggiunge l’80-90% dopo il periodo di arrossamento a terra. La “Melannurca Campana” IGP rivendica da sempre virtù salutari: altamente nutritiva per l’alto contenuto in vitamine (B1, B2, PP e C) e minerali (potassio, ferro, fosforo, manganese), ricca di fibre, regola le funzioni intestinali, è diuretica, particolarmente adatta ai bambini ed agli anziani, è indicata spesso nelle diete ai malati e in particolare ai diabetici. Anche per l’eccezionale rapporto acidi/zuccheri, le sue qualità organolettiche non trovano riscontro in altre varietà di mele. Una recente ricerca del Dipartimento di scienza degli alimenti dell’Universià di Napoli Federico II ha dimostrato che la mela Annurca dimezza i danni ossidativi alle cellule epiteliali gastriche. La sua azione gastroprotettiva dipende dalla ricchezza in composti fenolici, che sono in grado di prevenire così i danni ossidativi dell’apparato gastrico e aiutando a combattere le malattie gastriche legate all’azione di radicali liberi. Uno degli elementi di tipicità che certamente caratterizzano la “Melannurca Campana” IGP è l’arrossamento a terra delle mele nei cosiddetti “melai”. Essi sono costituiti da piccoli appezzamenti di terreno, sistemati adeguatamente in modo da evitare ristagni idrici, di larghezza non superiore a metri 1,50 su cui sono stesi strati di materiale soffice vario: un tempo si utilizzava la canapa, oggi sostituita da aghi di pino, trucioli di legna o altro materiale vegetale. Per la protezione dall’eccessivo irraggiamento solare i melai sono protetti da apprestamenti di varia natura. Durante la permanenza nei melai i frutti sono disposti su file esponendo alla luce la parte meno arrossata, vengono poi periodicamente rigirati ed accuratamente scelti, scartando quelli intaccati o marciti. E’ proprio questa pratica, volta a completare la maturazione dei frutti adottando metodi tradizionali e procedure effettuate tutte a mano, ad esaltare le caratteristiche qualitative della “Melannurca Campana” IGP, conferendogli quei valori di tipicità che nessun altra mela può vantare. Due gli ecotipi previsti dal disciplinare di produzione, con due distinte indicazioni varietali in etichetta: l’ “Annurca” classica e la diretta discendente “Annurca Rossa del Sud”, suo mutante naturale, diffuso nell’area di produzione da oltre un ventennio, che ha il pregio di produrre frutti a buccia rossa già sulla pianta. I frutti di maggior pregio, soprattutto dal punto di vista organolettico, a detta degli esperti sono quelli provenienti da piante innestate su franco, allevate a pieno vento e con scarsi apporti irrigui. Le indubbie caratteristiche organolettiche di questa mela, finora apprezzate soprattutto dai consumatori meridionali, stanno progressivamente conquistando anche altri mercati, grazie anche al riconoscimento del marchio di tutela e all’ingresso nei canali della grande distribuzione organizzata. Accanto ai succhi, di grande valore nutritivo, ottimi sono anche i liquori ottenuti dalle annurche, così come i dolci (crostate e sfogliatelle su tutti, ma anche le mitiche e tradizionali “mele cotte” al forno). Di recente, attraverso un programma di educazione alimentare della Regione Campania, la “Melannurca Campana” IGP è proposta al consumo dei bambini in visita a Città della Scienza nella forma commerciale della “quarta gamma” (confezione sigillata di una mela sbucciata e affettata in grado di mantenere inalterata per giorni la freschezza e l’aroma).

Cenni storici

La “Melannurca Campana” IGP è presente in Campania da almeno due millenni. La sua raffigurazione nei dipinti rinvenuti negli scavi di Ercolano e in particolare nella Casa dei Cervi, testimonia l’antichissima legame dell’Annurca con il mondo romano e la Campania felix in particolare. Luogo di origine sarebbe l’agro puteolano, come si desume dal Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. Proprio per la provenienza da Pozzuoli, dove è presente il lago di Averno, sede degli Inferi, Plinio la chiama “Mala Orcula” in quanto prodotta intorno all’Orco (gli Inferi). Anche Gian Battista della Porta, nel 1583, nel suo “Pomarium”, nel descrivere le mele che si producono a Pozzuoli cita testualmente: (… le mele che da Varrone, Columella e Macrobio sono dette orbiculate, provenienti da Pozzuoli, hanno la buccia rossa, da sembrare macchiate nel sangue e sono dolci di sapore, volgarmente sono chiamate Orcole…). Da qui i nomi di “anorcola” e poi “annorcola” utilizzati nei secoli successivi fino a giungere al 1876 quando il nome “Annurca” compare ufficialmente nel Manuale di Arboricoltura di G. A. Pasquale. Tradizionalmente coltivata nell’area flegrea e vesuviana, spesso in aziende di piccola dimensione e talora in promiscuità con ortaggi ed altri fruttiferi, la “Melannurca Campana” IGP si è andata diffondendo nel secolo scorso prima nelle aree aversana, maddalonese e beneventana, poi via via nel nocerino, nell’irno, i picentini e infine in tutta l’area dell’alto casertano. Proprio qui, già da alcuni decenni, con la regressione delle superfici agricole dell’area napoletana a causa della conurbazione delle zone costiere, ha trovato il territorio ove essa è più intensamente coltivata.

Area di produzione

La zona di produzione della “Melannurca Campana” IGP comprende ben 137 comuni appartenenti a tutte le province campane. Le aree ove si concentra la maggior parte della produzione sono: nel napoletano la Giuglianese-Flegrea, nel casertano la Maddalonese, l’Aversana e l’Alto Casertano, nel beneventano la Valle Caudina-Telesina e il Taburno, nel salernitano l’Irno e i Picentini.

Dati economici e produttivi                                                                

Con una produzione di poco più di 60.000 tonnellate medie annue, la “Melannurca Campana” IGP rappresenta l’80% circa della produzione campana di mele e il 5% circa di quella nazionale, per un valore complessivo stimato in oltre 40 milioni di euro. Attualmente la “Melannurca Campana” IGP è per circa 2/3 assorbita dai mercati regionali di Campania e Lazio, mentre circa un 20% raggiunge i mercati di Lombardia, Piemonte e Toscana. La tutela della mela Annurca si aggiunge a quelle già accordate alle mele Val di Non Dop e Alto Adige Igp, garantendo a più della metà del raccolto nazionale la protezione comunitaria di qualità certificata. Pur contando su di una superficie di oltre 4.000 ettari (80% del totale Campania), la superficie iscritta al sistema di certificazione dell’IGP (dati 2005) è di 288 ha, per un totale di 86 aziende agricole produttrici iscritte al registro. La produzione certificata è stata di 25.000 quintali circa, commercializzata da 4 delle 8 ditte confezionatrici iscritte al sistema IGP.

Registrazione e tutela

L’Indicazione Geografica Protetta (I.G.P.) “Melannurca Campana” è stata riconosciuta, ai sensi del Reg. CE n. 2081/92, con Regolamento (CE) n. 417/2006 (pubblicato sulla GUCE n. L 72 dell’11 marzo 2006). L’iscrizione al registro nazionale delle denominazioni e delle indicazioni geografiche protette è avvenuta con provvedimento ministeriale del 30.03.06, pubblicato sulla GURI n. 82 del 7.04.04, unitamente al Disciplinare di produzione e alla Scheda riepilogativa (già pubblicata sulla GUCE unitamente al predetto Reg. 417/06).

Organismo di controllo

L’organismo di certificazione autorizzato è l’Is.Me.Cert. (Istituto Mediterraneo per la Certificazione dei prodotti e dei processi nel settore agroalimentare), Corso Meridionale, 6 80143 Napoli tel. 081.5636647 Fax: 081.5534019 (sito web:www.ismecert.it).

Consorzio di tutela

Il “Consorzio di tutela Melannurca campana IGP”, costituito nel 2005, è stato riconosciuto dal MIPAAF con DM 18 aprile 2007 (pubblicato sulla G.U. n. 100 del 2.05.2007) in base all’art. 14 della legge 526/99 per la tutela, vigilanza e valorizzazione del prodotto.

Il Consorzio ha sede in Caserta, via Verdi, 29 – Tel: 0823.325144 Fax: 0823.351909; sito: www.melannurca.it.

Mozzarella di bufala campana D.O.P.

Descrizione del prodotto

Elementi di tipicità di questo formaggio fresco a pasta filata, sono soprattutto costituiti dalla materia prima impiegata, il latte fresco di bufala, particolarmente ricco in grasso e proteine, e dalla filatura. Operazione, quest’ultima, consistente nel lavorare a mano la pasta del formaggio a fine maturazione con acqua bollente fino a farla “filare”, in modo da ottenere la particolare consistenza del prodotto finale ed il caratteristico “bouquet”, determinato dalla microflora particolare che si sviluppa durante le varie fasi della lavorazione. La filatura si avvale di un mestolo e di un bastone, entrambi in legno, sollevando e tirando continuamente la pasta fusa fino ad ottenere un impasto omogeneo. Segue poi la formatura, che in molti caseifici si esegue ancora a mano con la tradizionale “mozzatura”, che il casaro effettua con il pollice e l’indice della mano. Le mozzarelle così prodotte vengono poi lasciate raffreddare in vasche contenenti acqua fredda e infine salate. La crosta è sottilissima e di colore bianco porcellanato, mentre la pasta non presenta occhiature ed è leggermente elastica nelle prime otto-dieci ore dalla produzione, e poi sempre più fondente. Il disciplinare, oltre alle classiche forme tondeggianti, prevede altre tipologie commerciali: i bocconcini, le ciliegine, le perline, i nodini, gli ovolini e le famosissime “trecce”. Il peso varia secondo la forma, da 10 a 800 grammi (3 kg per le trecce). E’ ammessa anche l’affumicatura, un antico e tradizionale processo naturale di lavorazione, ma in tal caso la denominazione di origine deve essere seguita dalla dicitura “affumicata”. Mediamente occorrono 4,2 litri di latte di bufala per produrre un chilogrammo di mozzarella.

Cenni storici

Le origini del prodotto sono direttamente all’introduzione del bufalo in Italia. Numerose sono le ipotesi sull’epoca di introduzione in Italia del bufalo, originario dell’India orientale. Secondo alcuni autori la bufala italiana avrebbe origine autoctone, per il ritrovamento di reperti fossili nella campagna romana, altri sostengono che essa sia stata introdotta in seguito all’invasione dei Longobardi, altri ancora dicono che furono i re Normanni intorno all’anno 1000. La confusione si pensa sia stata generata dal fatto che, con il termine di bubalus, in epoca romana si indicavano buoi, alci ed altri ruminanti tra cui i buoi selvatici. Le prime notizie documentate sulla presenza del bufalo in Italia risalgono intorno al XII-XIII secolo d.C. (Archivio Abbazia Farpa), soprattutto a seguito dell’impadulamento del basso versante tirrenico. La parola “Mozzarella” deriva certamente dal termine “mozzare”, operazione di formatura praticata tradizionalmente a mano nella fase finale della lavorazione. Tale termine appare per la prima volta in un testo di cucina citato da un cuoco della corte papale nel XVI secolo. Ma già nel XII secolo, i monaci del monastero di S. Lorenzo in Capua (CE) usavano offrire, per la festa del santo patrono, una “mozza o provatura” accompagnata da un pezzo di pane. I Borboni prestarono molta attenzione all’allevamento del bufalo tanto da creare un allevamento nella tenuta reale di Carditello dove nella metà del ‘700, insediarono anche un caseificio. Nella piana del Volturno ed in quella del Sele esistono ancora le antiche bufalare, costruzioni circolari in muratura con al centro un camino per la lavorazione del latte e con piccoli ambienti addossati alle pareti destinati all’alloggio dei bufalari. Particolarmente caratteristica è quella presente all’azienda agricola sperimentale “Improsta” ad Eboli, di proprietà regionale.

Area di produzione

Negli ultimi decenni il patrimonio bufalino, nell’area di produzione, è notevolmente aumentato, inversamente alla riduzione numerica della popolazione bovina. Questo processo, intensificatosi negli ultimi 15-20 anni, ha favorito lo sviluppo dell’intera filiera, cui sono impegnati oltre 2.000 imprenditori e 250 caseifici (anche se i caseifici iscritti alla DOP sono 128), e che a sua volta alimenta un indotto che oggi vede impegnati nell’area DOP oltre 20 mila addetti. Attualmente il patrimonio bufalino si aggira intorno a 250.000 capi, di cui circa 130 mila bufale in lattazione, distribuiti in 1850 allevamenti. L’80% è distribuito nell’ambito del territorio campano, il restante 20% è dislocato nel basso Lazio, in Puglia e in Molise. Mediamente si producono circa 33 mila tonnellate di Mozzarella di bufala campana DOP all’anno (dati 2008: 31.960 t), con un incremento medio costante nell’ultimo decennio (anche se nel 2007-08 per i noti fatti ambientali la produzione ha subito un certo rallentamento). Il fatturato espresso dal comparto si aggira intorno ai 400 milioni di euro, con un aumento del 5% annuo delle esportazioni. La percentuale di mozzarella dop venduta all’estero è di circa il 18% del totale formaggi italiani. Il consumo presenta un trend positivo con un incremento annuo pari a circa il 10%.

Dati economici e produttivi

Negli ultimi decenni il patrimonio bufalino, nell’area di produzione, è notevolmente aumentato, inversamente alla riduzione numerica della popolazione bovina. Questo processo, intensificatosi negli ultimi 15-20 anni, ha favorito lo sviluppo dell’intera filiera, cui sono impegnati oltre 2.000 imprenditori e 250 caseifici (anche se i caseifici iscritti alla DOP sono 128), e che a sua volta alimenta un indotto che oggi vede impegnati nell’area DOP oltre 20 mila addetti. Attualmente il patrimonio bufalino si aggira intorno a 250.000 capi, di cui circa 130 mila bufale in lattazione, distribuiti in 1850 allevamenti. L’80% è distribuito nell’ambito del territorio campano, il restante 20% è dislocato nel basso Lazio, in Puglia e in Molise. Mediamente si producono circa 33 mila tonnellate di Mozzarella di bufala campana DOP all’anno (dati 2008: 31.960 t), con un incremento medio costante nell’ultimo decennio (anche se nel 2007-08 per i noti fatti ambientali la produzione ha subito un certo rallentamento). Il fatturato espresso dal comparto si aggira intorno ai 400 milioni di euro, con un aumento del 5% annuo delle esportazioni. La percentuale di mozzarella dop venduta all’estero è di circa il 18% del totale formaggi italiani. Il consumo presenta un trend positivo con un incremento annuo pari a circa il 10%.

Registrazione e tutela

La denominazione “Mozzarella di Bufala Campana” è stata riconosciuta con Regolamento CE n. 1107/96 (pubblicato sulla GUCE L 148/96 del 21 giugno 1996). Il riconoscimento nazionale era avvenuto con DPR 10 maggio 1993 (pubblicato sulla G.U. del 17 settembre 1993) unitamente al Disciplinare di produzione. Precedentemente al Reg. CE n. 2081/92, la denominazione di origine era già stata riconosciuta a livello nazionale con il DPR 15 settembre 1988 (pubblicato sulla G.U. n. 44 del 22 febbraio 1989). Successivamente, con Decreto ministeriale del 7 aprile 1998, il MiPAF ha determinato gli elementi di etichettatura per la denominazione registrata, mentre con successivo Decreto del 21 luglio 1998 ha stabilito i criteri per l’utilizzo dei termini di designazione del prodotto. Con successivo regolamento CE n. 103/2008 (pubblicato sulla GUCE L31 del 5 febbraio 2008) sono state approvate alcune modifiche al disciplinare di produzione in ordine alla disciplina produttiva e all’ampliamento dell’area di produzione (le modifiche al disciplinare sono state pubblicate sulla G.U. n. 47 del 25.02.2008, pag. 36)

Organismo di controllo

L’organismo di certificazione autorizzato è la società C.S.Q.A., con sede in via S. Gaetano 74, 30016 Thiene (VI) – tel. 0445.313011 (sito web: www.csqa.it) e con sede in Campania in viale Carlo III 130, S. Nicola la Strada (CE); tel. 0823 424857 – fax 0823 422775.

Consorzio di tutela

Il Consorzio per la tutela del formaggio “Mozzarella di Bufala Campana” è stato riconosciuto dal MIPAF con DM 24 aprile 2002 (pubblicato sulla G.U. 134 del 10.06.2002) in base all’art. 14 della legge 526/99 per la tutela, vigilanza e valorizzazione del prodotto. ll Consorzio aderisce all’Associazione Italiana Consorzi Indicazioni Geografiche (AICIG)www.aicig.it. Il Consorzio ha sede in S. Nicola la Strada (CE), viale Carlo III, n° 128 (Tel: 0823.424780 Fax: 0823.452782). Sito web: www.mozzarelladop.it

Pane di Patate

Denominazione del Prodotto: Pane di patate

Territorio interessato alla produzione: comune di Cusano Mutri (BN)

Descrizione sintetica prodotto:

prodotto in pezzature da 0,5 Kg fino a 2,5 Kg, con forma allungata o rotonda, alte 15-20 cm; il colore della crosta è giallo dorato fino a bruno scuro secondo il livello di cottura, mollica elastica, molto consistente ed abbastanza tenace, con occhiatura di varia grandezza e distribuzione, di colore giallo – paglierino.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Si prepara l’impasto inizialmente unendo farina, acqua, sale e criscito; all’impasto così ottenuto si aggiungono patate bollite e schiacciate; si prosegue nell’impasto che viene quindi lasciato a riposare su assi di legno per circa 1 ora e 30 per la lievitazione. Viene successivamente reimpastate e fatte a mano le forme che vengono lasciate in seconda lievitazione per 30 minuti in ambiente caldo e quindi cotte in forno a legna.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

ingredienti: Farina tipo 0, patate bollite, criscito (pasta acida della lavorazione precedente), acqua, sale Vengono utilizzati forni a legna di tipo tradizionale, tavole di legno per la lievitazione della pasta, teli di cotone o di lino per coprire le forme durante la seconda lievitazione.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Anticamente veniva preparato in tutte le case e costituiva l’alimento base per tutte le famiglie. In tempi recenti ha conosciuto un periodo di forte calo nei consumi, ma oggi è nuovamente apprezzato anche grazie all’impegno di un produttore locale. Prodotto di antica origine, la sua preparazione ed i suoi ingredienti sono rimasti pressoché identici ed invariati. E’ molto ricercato in zona e nelle aree limitrofe. Viene prodotto e consumato a livello locale, anche se è molto apprezzato dai visitatori delle sagre che hanno luogo nel comune di Cusano Mutri in estate.

Parrozzo

Denominazione del Prodotto: Parrozzo

Territorio interessato alla produzione: fascia pedemontana del massiccio del Matese Beneventano

Descrizione sintetica prodotto

Il parrozzo salato un prodotto realizzato con farina di mais della varietlocale detta “Quarantina”, acqua calda, sale, pepe, strutto, olio extravergine di oliva e cicoli di maiale, in panetti del peso di 300 – 500 gr.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Gli ingredienti vengono impastati fra loro coscome per la “Pizza sulla Liscia”; l’impasto, in panetti del peso di circa 300 – 500 gr, viene posto su una foglia di cavolo rapa (del tipo “Minestra Cusanara”), ricoperto con un’altra foglia e posto in cottura su un mattone di argilla refrattaria non smaltata (del tipo riggiola) e quindi coperto con una apposita campana di rame, quindi posto sulla brace del camino.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

Gli ingredienti vengono impastati a mano, senza lievitazione; quindi cotti su una mattonella di argilla refrattaria coperti da una cmpana di rame, il tutto posto sulla brace del camino.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

E’ una preparazione invernale, complicata nell’esecuzione e per il reperimento della particolare attrezzatura perla cottura. viene offerto da diversi ristoranti locali e preparato in famiglia.

Patata Nera del Matese

Territorio interessato alla produzione

altopiano del matese, comuni di S. Gregorio, Gallo e Letino (CE)

Descrizione sintetica prodotto

Tuberi di dimensioni medio piccole, allungati, con buccia liscia, regolare, di colore scuro con occhi numerosi, rilevati ed evidenti; pasta bianca e compatta, pezzatura variabile. La Patata del Matese, oggi praticamente scomparsa, in passato ha alimentato un fiorente commercio che raggiungeva le città di Napoli e Caserta; veniva utilizzata per minestre, previa bollitura, con erbe alimurgiche (cardillo, rapa selvatica, etc) e coltivate (minestra cusanara) più raramente fritte. Tradizionalmente, insieme ad altre varietà locali, ingrediente base anche del pane di patate, ancora prodotto a Cusano Mutri.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

La coltivazione inizia nel mese di maggio (semina dei tuberi spaccati, in due o quattro parti secondo le dimensioni), e si chiude con la raccolta ad ottobre, manuale. Le tecniche produttive sono quelle della tradizionale coltivazione della patata in coltura principale (sarchiatura, rincalzatura senza diserbo). Le patate vengono raccolte entro sacchi di iuta e conservate in ambienti freschi e senza luce per tutto l’anno. Contestualmente alla raccolta dei tuberi viene seminata la segale (“secena”). l’abbandono delle coltivazione a favore della pastorizia estensiva ne ha determinato praticamente la scomparsa. Veniva conservato in larghe fosse scavate nel terreno, in posizione rialzate per evitare eccessiva umidità, ricoperte di felci e terreno, oppure in casolari realizzati allo scopo, da cui venivano prelevate da aperture sul tetto.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

Attrezzi agricoli in genere.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Prodotto coltivato nell’areale da almeno un secolo; costituiva assieme alla segale la base dietetica delle popolazioni locali più povere.

Patata sotterrata di Calvaruso

Territorio interessato alla produzione

Cusano Mutri, loc. Calvaruso e Selvapiana; altre aree montane del Matese (BN)

Descrizione sintetica prodotto:

La denominazione è riferibile a vari tipi di patata, di norma a buccia rossa, in passato anche nera, che veniva (ed in alcuni sporadici casi avviene tuttora) interrata dopo la raccolta in buche profonde foderate di foglie di felce femmina. Durante la permanenza nelle buche per diversi mesi avviene una parziale idrolizzazione degli amidi del tubero, che dà un sapore caratteristico, con note dolciastre, trasmesso a preparati quali il cosiddetto “gattò” di patate, ai “crocché” e ad altre preparazioni tradizionali.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Le buche, di profondità di 2 mt circa, vengono foderate di foglie di felce femmina (Athyrium filix-femina) ampiamente diffusa nei boschi circostanti. la buca viene riempita con le patate scelte per il consumo, prive di marciumi e di difetti evidenti, e quindi coperta con un alto strato di felci, quindi con terreno di bosco sul quale veniva un pempo seminata la “Secena” (segale). Ovviamente la posizione della buca deve assicurare il migliore sgrondo dell’acqua piovana ed evitare ristagni idrici ed infiltrazioni d’acqua nella massa sotterrata. Le patate così conservate vengono dissotterrate nei mesi invernali e primaverili, secondo le necessità della famiglia contadina, e utilizzate principalmente per l’autoconsumo.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

foglie di felce femmina (Athyrium filix-foemina).

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Modalità di conservazione delle patate di tipo arcaico, fortemente consolidato nel tempo ed ora pressoché scomparso; interessante per ia della caratteristiche organolettiche assunte dalle patate conservate in questo modo.

Pecorino di Pietraroja

Territorio interessato alla produzione: Comune di Pietraroja (BN)

Descrizione sintetica prodotto

Formaggio di pecora a pasta morbida con struttura compatta e rarissime occhiature. Si differenzia dagli altri formaggi di latte di pecora per le dimensioni maggiori, in particolare per il diametro delle forme, che può raggiungere i 35 – 40 cm, con una altezza dello scalzo di 12 – 15 cm, e per l’uso della cosiddetta “acquazizza”, sorta di caglio liquido prodotto artigianalmente. Con l’avanzare della maturazione e con l’uso di diversi metodi, il sapore passa da dolce con pasta bianca e morbida ad una pasta più elastica con colore leggermente paglierino e sapore dolce ma più marcato, fino ad acquistare consistenza compatta e frattura a scaglie di colore paglierino più marcato, sapore deciso e tendenzialmente piccante. Alla vista si presenta di colore giallo paglierino deciso, lucido per l’applicazione di olio extravergine di oliva sulla crosta, con evidenti impronte delle fascere, fino al colore bruno delle forme più stagionate.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Il latte destinato alla produzione proviene dalla doppia mungitura (sera e mattina) delle pecore allevate nell’area di produzione. Esse vengono alimentate con pascolo di montagna ed integrazione di cereali e foraggi del posto. Il latte intero viene coagulato ad una temperatura di 35° con l’aggiunta di caglio o dell’acquazizza, caglio liquido autoprodotto con un metodo che prevede l’uso di caglio di agnello o capretto intero, proveniente da animali non svezzati, legati ai due estremi. Questi vengono immersi in acqua addizionata di sale (2Kg per 10 litri d’acqua), fatta bollire in precedenza a lungo per sciogliere interamente il sale e quindi portata a 35/36 °C, in una damigiana a collo largo da  10 litri; per garantire l’immersione del caglio (o dei cagli, se di piccola dimensione) si applicano dei cestelli al collo della damigiana. le damigiane, chiuse, vengono tenute almeno 40 – 50 giorni in cantina, al buio ed al fresco. Per la lavorazione di formaggi quali caciocavallo, provolone, scamorze e pecorino vine adoperata l’acqua che risulta alla fine del processo limpida, giallastra, oppure il caglio solido fatto rinvenire in acqua tiepida e ridotto in pasta, oppure ancora l’interno del caglio. Nel caso di uso dell’acquazizza si avrà un pèrodotto più delicato ed armonico, meno piccantealla stagionatura; nel caso di uso del caglio solido esausto, la stagionatura indurrà un sapore più deciso ed una maggiore presenza delle note piccanti; usando il caglio solido non sfruttato, si avrà la massima sapidità e piccantezza a parità di durata della stagionatura.
La rottura della cagliata avviene dopo circa 30 minuti, è fatta manualmente o con spini rompicagliata in legno o acciaio inox fino ad ottenere grumi di dimensioni da una nocciola ad un chicco di mais. La cagliata così sosta sotto siero per circa 10 minuti quindi viene estratta manualmente e messa in fuscelle canestrate di plastica o di vimini.
La salatura viene fatta a secco con sale medio per sfregatura sulla superfice dopo circa due ore dalla formatura. Dopo 7 giorni viene rimosso dalle forme e messo ad asciugare su tavolati di legno di faggio o graticciati dove periodicamente e all’occorrenza, durante la stagionatura, viene unto con olio d’oliva.
Le fasi della lavorazione sono le seguenti:
– mungitura del latte crudo  e riscaldamento a 35°C;
– Aggiunta di caglio liquido o di acquazizza;
– Rottura cagliata;
– Maturazione cagliata sotto siero madre;
– Estrazione del siero;
– separazione della cagliata e pressatura nelle fuscelle;
– Salatura delle superfici con sale alimentare a grana media;
– Asciugatura su piani in legno o graticci; – Stagionatura in  locali freschi tradizionali, denominati caselle.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

– Laboratori artigianali e locali tradizionali di stagionatura (caselle poste ad alta quota, realizzate in muratura di pietra, pavimenti in cotto e tetti in legno e coppi, normalmente parzialmente interrate e di modesta altezza interna) tali da garantire temperatura (8-15°) ed umidità (60-80%) pressoché costanti.
– Contenitori e piani d’appoggio in acciaio;
– caldare in acciaio inox o rame stagnato;
– Attrezzi di lavorazione in legno;
– Damigiane in vetro con tappo per la produzione di “acquazizza”
– cucchiai di legno per rimescolamento della pasta
– Locali tradizionali per asciugatura  e stagionatura.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Il prodotto è ampiamente conosciuto nell’area interessata ed è sicuramente trasformato da almeno 25 anni come accertato attraverso testimonianze raccolte in zona.

Peperoncini ripieni al tonno

Negli ultimi anni, con la diffusione delle aziende agrituristiche, si è diffusa una ricetta che prima era di esclusivo uso familiare, mai stata utilizzata per preparazioni artigianali o industriali, quella dei peperoncini ripieni al tonno. è una ricetta delle province Avellino, Benevento e Salerno, per realizzare la quale si utilizzano le papaccelle, i peperoncini rotondi di produzione locale, che vengono privati dei semi e del picciolo e poi bolliti in acqua e aceto. In seguito i peperoni vengono riempiti di un impasto generalmente composto da tonno sott’olio strizzato, acciuga, capperi, spezie ed aromi, tritati, e poi conservati sott’olio extravergine di oliva, pronti per essere consumati come antipasto o contorno.

Peperone imbottito

Puparuolo ‘mbuttunato, peperone ripieno

Il territorio interessato è quello dell’intera regione.

Descrizione del prodotto: peperoni di grande taglia, quadrati o lunghi, solitamente rossi o gialli, di varietà non amare né piccanti, svuotati di picciolo e semi e ripieni di mollica di pane raffermo rinvenuta nell’acqua, carne tritata, pepe, sale, prezzemolo tritato, uovo e parmigiano grattugiato. Esistono comunque numerose varianti che tolgono ad esempio la carne tritata ed aggiungono alici salate, capperi ed olive nere; la base è sempre la mollica di pane ammollata in acqua. sono solitamente cotti in forno, tradizionalmente dopo la cottura del pane, sfruttandone il calore residuo.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura: il ripieno viene impastato e quindi si riempie la cavità dei peperoni crudi avendo cura di non lasciare spazio e di non romperli. La cottura avviene in forno, anche utilizzando la carta stagnola per evitare che si essicchino troppo. La cavità del picciolo sarà poi cosparsa di pane grattugiato preventivamente tostato ed olio extravergine di oliva.

La ricetta è tradizionalmente di uso familiare, ma viene proposta da numerosi ristoranti come specialità tipica sopratutto del Cilento, del Sannio e dell’Irpinia, nonché del centro storico di Napoli.

Pizza sulla liscia

Denominazione del Prodotto: Pizza sulla Liscia

Territorio interessato alla produzione: fascia pedemontana del massiccio del Matese Beneventano

Descrizione sintetica prodotto:

La pizza sulla liscia è un prodotto realizzato con farina di mais della varietà locale detta “Quarantina”, acqua calda, sale, pepe, strutto, olio extravergine di oliva e cicoli di maiale, impastati fra loro; l’impasto, in forme schiacciate ed allungate, del peso di 2-6 Kg, spessore 2-3 cm, viene cotto su una pietra arroventata denominata “liscia”.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

La pizza sulla liscia è un impasto di farina di mais della varietà locale detta “Quarantina”, acqua calda, sale, pepe, strutto, olio extravergine di oliva e cicoli di maiale; l’impasto, in forme schiacciate ed allungate, del peso di 2-6 Kg, spessore 2-3 cm, viene collocato sulla liscia arroventata e cotto variandone l’esposizione attraverso l’orientamento della liscia, il che richiede occhio esperto ed abilità manuale.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

La Liscia è una lastra di pietra locale di spessore di due – tre cm, larga 30 cm e e lunghezza variabile, che viene arroventata con gradualità sulla brace ed a fianco alla fiamma viva del camino; quindi riarroventata ed utilizzata per cuocere pizze ed altri prodotti.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

E’ una preparazione invernale, complicata nell’esecuzione e per il reperimento delle pietre adatte, di opportuno spessore. Viene offerto da diversi ristoranti locali e preparato in famiglia.

Polenta stampata, alla cucchiaredda, frattaccio

Denominazione del Prodotto: POLENTA STAMPATA, ALLA CUCCHIAREDDA, FRATTACCIO

Territorio interessato alla produzione: Aree del Titerno e del Fortore (BN)

Descrizione sintetica prodotto:

Si tratta di preparazioni a base di mais di tipo locale, a pannocchia di solito piccola, raccorciata, colore tendente all’aranciato (ad esempio, mais della quarantina o altre) che contrariamente ad altre zone hanno rappresentato, nel territorio considerato, una importante risorsa alimentare fin dagli inizi dell’ottocento. Le farine ricavate, con forte componente vitrea, venivano utilizzate per produrre polenta che poi veniva condita o trattata in diversi modi: – polenta stampata, fatta raffreddare e stesa in uno strato dello spessore di 2-3 cm, quindi arrostita brevemente su pietra o su mattone, usata come pane e quindi condita con carne di ragù o salsiccia o fagioli e verdure; – polenta alla cucchiaredda, servita più morbida e condita con cucchiaiate di ragù frammezzate da strati polenta; – frattaccio: polenta stesa e poi fritta nella sugna, nell’olio o nel burro ed usata come crostino per accompagnare zuppe di legumi e verdure.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Partendo dalla farima di ecotipi locali di mais, caratterizzati da una forte componente “vitrea”, si prepara la polenta con una cottura in acqua con aggiunta di sale, per diverse ore. la polenta viene poi versata su una spianatoia di legno e lasciata raffreddare (nel caso della stampata e del frattaccio) dopo essere stata spianata con le mani o con il mattarelloe quindi arrostita o fritta. nel caso invece della polenta alla cucchiaredda direttamente dal paiolo la polenta viene versata con mestoli nei piatti dove viene alternata al ragù di carne.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

Normali attrezzature di cucina; spianatoia di legno di faggio; mattarello di legno di faggio.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Le varietà di mais a cariosside rosso-aranciate venivano e sono utilizzate esclusivamente per l’alimentazione umana e mai per l’alimentazione animale. la tradizione persiste sia nell’alimentazione familiare sia nella ristorazione tipica.

Prodotti del parco

Per secoli, fin dalla preistoria, i pastori hanno trasferito greggi e mandrie, spostandole tra la montagna e la valle e viceversa, assecondando l’alternarsi delle stagioni.
La transumanza è un viaggio autentico, bagaglio di saperi, lingue e leggende. In centri come Gallo Matese, Letino, Valle Agricola i pastori escono all’alba con le loro greggi, e trascorrono le giornate sui monti, alla ricerca dei pascoli migliori.
Quasi ovunque soppiantati dall’utilizzo dei mezzi a motore, qui i tratturi, le antiche vie utilizzate per la transumanza, esistono ancora. Sono il filo rosso che unisce luoghi e genti del Matese, tracciandone il carattere.
Come nel minuscolo borgo di Mastramici, in territorio di Pietraroja, dove il passato è ancora attuale: tra le case, allineate secondo lo schema dei vici sanniti, su un viottolo ingombro di paglia si affacciano stalle e ovili. Sul Matese i pastori sono ancora in viaggio.
I prodotti della gastronomia locale, direttamente derivati dal mondo pastorale e contadino, rendono la visita del Parco piacevole anche per gli amanti della tavola. Dagli allevamenti bovini, ovini e caprini si ottengono autentiche prelibatezze: dal formaggio pecorino alle caciotte, dalla mozzarella ai pregiati caciocavalli, segnalati tra i migliori d’talia e lavorati soprattutto nei centri abitati più prettamente montani.
Il clima severo di Pietraroja si presta alla stagionatura di ottimi prosciutti, che insieme a salumi genuini come il cazzu’ntontulu, tipico di Castello Matese, guarniscono gli antipasti delle molte aziende agrituristiche della zona.
I boschi regalano fragoline, more e mirtilli, dai quali si ricavano ottimi dolci. E poi origano, maggiorana, castagne e profumatissimi funghi. Nelle zone collinari della fascia pedemontana, tra terreni alluvionali e falde ben drenate al piede dei versanti, si stendono floridi oliveti dai quali si ricava un olio d’oliva molto apprezzato.
I piatti tipici locali si basano su sapori semplici e al tempo stesso decisi. Si va dai primi a base di pasta fatta in casa, come i fusilli e le tagliatelle, da accompagnare con legumi o coi tradizionali sughi meridionali. Una vera prelibatezza sono i cavatelli artigianali, conditi con ragù di carne con sugo di agnello e serviti con una spolverata di pecorino.
I secondi sono generalmente a base di carne. L’abbondanza di pascoli incontaminati fa sì che agnelli e capretti forniscano carni tenere e genuine. Allo spiedo, alla brace, queste carni accompagnano sempre i giorni di festa e le occasioni di relax in montagna.
Piatti tradizionali sono lo spezzatino di capretto alla cacciatora, l’agnello cacio e ova, mentre una vera prelibatezza è la pezzata, una preparazione a base di agnello, che viene cucinato secondo l’usanza dei pastori della transumanza, ovvero bollita a lungo e profumata con gli aromi dei boschi e dei pascoli di montagna.
E poi ci sono i piatti derivanti dalle coltivazioni strettamente locali. L’area di Gallo e Letino è nota agli intenditori per gli ottimi fagioli, coi quali si possono preparare zuppe e minestre, come i fagioli con sugna e cotiche, oppure salsiccia e fagioli. Le terre di Alife producono una varietà di cipolla particolarmente gustosa, con cui vengono preparate zuppe e frittate, e alla quale ogni estate è dedicata una specifica festa. Ad Ailano si preparano marruche (lumache) in brodo.
Panettieri e massaie, oltre a impastare e cuocere ottime pagnotte, sfornano anche caniscioni (pasta di pane ripiena) di verdure, prosciutto, uova o formaggio. Nella zona di San Lorenzello sono rinomati i taralli.
Le ricorrenze a sfondo culinario abbondano in ogni centro del parco. Le sagre di Cusano Mutri sono ormai famose, e attirano ogni anno decine di migliaia di visitatori.
Quella dei Prodotti Tipici si svolge all’inizio dell’estate, mentre quella dei Funghi chiude la stagione. In autunno, nella vicina frazione di Civitella Licinio, come anche a Cerreto Sannita, si svolge invece la Sagra della Castagna.
Le rinomate fiere settembrine di Massa di Faicchio, dove scorre buon vino, danno l’opportunità  di stare insieme e assaggiare le delizie della cucina locale, oltre che fare posto nelle cantine per il vino nuovo.
Le giostre medievali di Castello Matese si accompagnano alle sagre che rallegrano quasi tutto il mese di agosto. Ma si sa, quella dell’estate è aria di festa. Infatti in molti centri del Matese vengono organizzati eventi del genere: gli antichi sapori sono di casa a Gioia Sannitica, dove per le feste gastronomiche i cibi vengono preparati da cucine locali, secondo ricette e metodi esclusivamente artigianali.
A Letino si tengono la Sagra del Formaggio e il Ferragosto Letinese, a Raviscanina la Sagra della Pannocchia, a Valle Agricola il Ferragosto Valligiano, a Cerreto Sannita l’Estate Cerretese.
Questi momenti sono ottime occasioni per fare festa e bere in compagnia, per ritrovarsi in piazza e perdersi a tavola.

Prosciutto di Pietraroja

Il prosciutto di Pietraroja, comune della provincia di Benevento, è rinomato da secoli, tanto che in una collezione di stampe dell’archivio del Regno di Napoli il simbolo di questo piccolo paese del Beneventano rappresenta una donna con un prosciutto. Vi sono, inoltre testimonianze che nel 1776, il Duca di Laurenzana di Piedimonte commissionava una fornitura di “prigiotta” da Pietraroja. Nel 1917, Antonio Iamalio, nella sua descrizione della provincia di Benevento Regina del Sannio, ci dice che è “Fiorente vi è principalmente l’allevamento dei suini, donde i rinomati prosciutti di Pietraroja”. Gli antichi sistemi di lavorazione, il clima caratteristico e la finezza dell’aria di montagna, fanno di questo salume un prodotto unico dall’aroma delicato e inconfondibile. La lavorazione tipica del prosciutto inizia con una rifilatura a mano del coscio, la coscia fresca posteriore del suino, da cui si ottiene il prosciutto. La forma, il giorno dopo viene messa sul tradizionale timpano di legno, concavo e inclinato, dove viene salata e lasciata lì per circa 15-20 giorni. Passato questo periodo, una volta perduta buona parte della sierosità “salamona” e ripulito del sale residuo, il prosciutto viene collocato nella pressa, una sorta di torchio, dove viene schiacciato per quattro giorni e poi sospeso in un luogo fumoso per una settimana, per poi essere pressato ancora per quattro settimane e speziato con pepe nero e peperoncino. Purtroppo, oggi la sua produzione è molto ridotta: si producono poche centinaia di esemplari, per lo più destinate al consumo familiare.

Provolone

Sinonimi e/o termini dialettali

provolone del Matese

Territorio interessato alla produzione

Aree montane del Massiccio del Matese, nei Comuni di San Gregorio Matese e Castello del Matese; Matese beneventano.

Descrizione sintetica prodotto

Formaggio a pasta filata prodotto con latte di vacca intero di animali allevati nell’area di produzione. è un prodotto ottenuto con un procedimento analogo a quello del caciocavallo si differenzia da questo per la forma e per la stagionatura . La forma è troncoconica, a spigoli arrotondati, di dimensioni maggiori del caciocavallo; la legatura è sia a metà della forma, in senso orizzontale, sia verticale, in modo da dividerla in quattro settori verticali, spesso incisi nella crosta . Il peso si aggira tra i 2 ed i 7 Kg, ma non di rado supera i 10 Kg. Alla vista si presenta con crosta liscia e lucida, giallo paglierino carico, solida al tatto; la pasta è omogenea e compatta, con rare occhiature, tendente al giallo paglierino più pronucniato ed intenso all’esterno. Il sapore è piacevole, più delicato e solo leggermente piccante rispetto al caciocavallo di pari stagionatura. .

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Il ciclo di produzione è praticamente identico a quello del caciocavallo del Matese.
Il latte proviene dalla mungitura di animali alimentati con pascolo di montagna integrato da cereali e foraggi del posto. Dopo la mungitura che avviene al mattino e alla sera il latte intero viene coagulato ad una temperatura di 38° con l’aggiunta di caglio di vitello liquido e siero innesto preparato nella stessa struttura di trasformazione del latte.

Dopo circa 35 minuti si procede alla rottura della cagliata con la Remenatora (Bastone di legno di faggio a forma di spatola allungata di circa 90 – 100 cm) fino ad ottenere grani di pasta della grandezza di un’oliva. Si lascia quindi riposare la pasta per 15 minuti sotto siero quindi si procede, con l’ausilio di una tela alla raccolta della pasta dalla caldaia compattandola in una tinozza di legno di ciliegio. Inizia quindi la fase di maturazione della cagliata che si lascia così riposare con l’aggiunta di siero bollente dalle 2 alle 4 ore per permettere che avvenga la fermentazione lattica. La maturazione è completata quando la pasta è nelle condizioni di essere filata e questo si verifica prelevando una piccola porzione di pasta  che messa nell’acqua bollente se inizia a filare è pronta per la successiva lavorazione.

La pasta viene quindi scolata dal siero e fatta sgocciolare per circa 15 minuti (il siero viene conservato per essere utilizzato alla prossima cagliata) poi ritorna nella tinozza e viene tagliata a fette, si aggiunge acqua bollente e si lavora con la Remenatora al fine di formare, con movimenti energici, un lungo cordone di pasta liscia, senza pieghe e sfilature e senza vuoti all’interno. Il cordone viene quindi porzionato secondo le esigenze di produzione  i pezzi mano a mano che vengono tagliati molto velocemente sono ulteriormente lavorati a mano nell’acqua bollente per modellare la forma comprimendo la pasta fino a renderla liscia e lucida dandogli una forma cilindrica. Le forme così modellate vengono quindi immerse in acqua di raffreddamento e successivamente in salamoia. Tolte dalla salamoia le forme sono legate e sospese singolarmente per il tramite dei legacci; in questa fase la forma diventa tronco conica per gravità. La stagionatura è di almeno 45 -60 giorni e può superare i 18 mesi.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

I locali di produzione sono laboratori artigianali e locali domestici per la stagionatura, Caselle dei pastori (vecchie cascine in pietra con tetto in legno e coppi normalmente terranee e di modesta altezza interna) o cantine, tali da garantire temperatura (8-15°) ed umidità (60-80%) pressoché costanti. Le attrezzature sono costituite da caldaie in acciaio inox o rame, telo di cotone per il prelievo della cagliata dalla caldaia, Remenatora in legno di faggio, Tinozza di legno di ciliegio,  corda in rafia per la stagionatura.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Questo prodotto è derivato dalla produzione del caciocavallo da cui si differenzia oltre che per la forma per le differenti caratteristiche organolettiche, indotte dalle dimensioni maggiori.

Ricotta di Bufala Campana DOP

Descrizione del prodotto

In tutte le aree di produzione della mozzarella di bufala campana, quindi le province di Benevento, Salerno, Caserta, Napoli e altre ricadenti nell’area della DOP “Mozzarella di bufala Campana”, dalla lavorazione del siero della mozzarella si ricava anche la ricotta, che può essere consumata fresca o sottoposta a essiccamento. La ricotta di bufala fresca ha un colore latteo e consistenza morbida e si ottiene riscaldando il siero derivante dalla lavorazione del latte crudo per la produzione di mozzarella di bufala fino alla temperatura di circa 90 gradi. Al siero viene poi aggiunto sale quanto basta per ottenere la giusta sapidità del prodotto. Per ottenere, invece, la ricotta essiccata di bufala, che è a pasta compatta, è necessario che le forme stagionino in cella per circa 10 giorni e poi vengano lasciate per lo meno un mese a essiccare. Vengono poi tolte dai contenitori e lasciate stagionare altri 30 giorni, fino a essere ripulite dalle muffe, private della scorza sottile e messe sotto vuoto.

Area di produzione

Vedi scheda Mozzarella di bufala campana

Registrazione e tutela

La Denominazione di Origine Protetta (D.O.P.) Ricotta di bufala campana è stata riconosciuta, ai sensi del Reg. CE n. 634/10. La Scheda riepilogativa è stata pubblicata sulla GUCE C260 del 30 ottobre 2009.

Ricotta di fuscella

Il termine ricotta deriva da latino recoctus, termine che stava a indicare la ricottura del siero dopo la produzione del formaggio, motivo per il quale la ricotta non può essere considerata un vero e proprio formaggio, perché si ottiene dalla lavorazione del siero che si libera dalla cagliata. è un prodotto antichissimo e diffuso in tutta la regione, che va consumato freschissimo. Si ottiene riscaldando il siero fino a una temperatura di circa 80 gradi, quando affiora una massa fioccosa leggera e bianca, che viene raccolta ancora calda e messa in cestelli di plastica o di giunco intrecciato, dette fuscelle, da cui deriva il nome questo tipo di ricotta. Si ottiene, così, una forma prismatica, di colore bianco, dalla consistenza delicatissima, che si consuma da sola o come ingrediente indispensabile in moltissimi di piatti tradizionali della Campania, dalla pasta ripiena, al dolci come la pastiera.

Ricotta di laticauda

La pecora laticauda, dalla “larga coda”, è diffusissima soprattutto nelle province di Benevento, Avellino e Caserta ed è stata originata, verosimilmente, da un incrocio della pecora appenninica, tipica dell’Italia meridionale con la pecora Nord- Africana, Berbera o Barbaresca, importata in Campania dai Borboni ai tempi di Carlo III. Da questa particolare pecora deriva, oltre che una carne pregiatissima, anche un pecorino dal sapore molto particolare, prodotto da tempi remotissimi. Anche dal siero proveniente dalla lavorazione del pecorino di laticauda, si ricava la ricotta, della particolare specie laticauda: dal siero, una volta riscaldato, affiora una massa fioccosa leggera e bianca, che viene raccolta ancora calda e messa in fuscelle fatte di giunco intrecciato, questo latticino è molto leggero, e ha un sapore delicato ma al tempo stesso un retrogusto particolarmente intenso.

Salsiccia di polmone

I secondi e terzi tagli del maiale, residui della manifattura degli altri salumi, vengono utilizzati, nelle zone di Avellino, Caserta, Benevento, Salerno, per la produzione della salsiccia di polmone, detta anche “pzzentu”, pezzente, proprio per la sua vocazione povera. Oltre al polmone, da cui prende il nome, per confezionarla si utilizzano anche altre interiora, milza, sanguicci, cuore, fegato, rognone, con aggiunta di cotiche lavate, pulite e scaldate in acqua. Si macina il tutto e si aggiungono sale, peperoncino, finocchio selvatico, che, mescolati si insaccano in un budello di dimensione simile a quello della salsiccia. L’essiccazione avviene in ambienti freschi e ventilati e deve durare almeno un mese; può essere anche soggetta ad affumicatura. La polmonata è antichissima ed è un elemento fondamentale per insaporire le tradizionali minestre di verdure e, in particolare, la minestra maritata.

Salsiccia fresca a punta di coltello

Territorio interessato alla produzione

intera regione Campania

Descrizione

Salsiccia di carne suina, non stagionata, da consumarsi previa cottura; si presenta di diametro compreso fra 2,5 e 3,5 cm, lunghezza variabile da 5 cm fino al metro senza legatura; il budello viene “strozzato” da legature periodiche effettuate con spago per alimenti; è addizionata di pepe nero (in grani o macinato) oppure semi di finocchio o ancora peperoncino macinato, dolce o piccante. Tagli carnei magri e grassi non sono tritati ma tagliati in pezzi (a dadini) di dimensioni variabili a mano, con coltello affilato (da cui il nome). Esistono versioni con aggiunta di altri ingredienti, quali vino bianco o rosso, formaggi (provola, mozzarella, caciocavallo), friarielli già cotti ed altro.

Il prodotto è ampiamente conosciuto nell’area rilevata ed è molto diffuso, rientrando nelle normali preparazioni di macelleria, sia nei piccoli centri che nelle grandi città; è sicuramente trasformato da almeno 25 anni, come accertato attraverso le testimonianze raccolte in zona.

Salsiccia fresca affumicata

La salsiccia di carne suina prodotta in Campania, in particolare nelle zone interne della regione, è molto prelibata e celebre per il suo gusto particolare e la sua tradizionale forma a “u”. Per prepararla si utilizzano due parti magre una parte di grasso del suino, che vengono triturate, miscelate con sale e aromi. Generalmente si utilizzano sale, pepe e semi di finocchio, ma a volte il pepe viene sostituito dal peperoncino. Il tutto viene insaccato in budello naturale che viene legato e piegato ai due capi con un unico spago che prende la forma di una “u” molto stretta. Segue un processo di affumicatura e poi una stagionatura di circa 20-30 giorni.

Salsiccia R’ Poc

Territorio interessato alla produzione: Comuni del Sannio Beneventano, in particolare Cusano Mutri, Cerreto Sannita, Guardia Sanframondi, Pietraroja.

Descrizione sintetica prodotto:

la Salsiccia r’ Poc si presenta di forma cilindrica, con diametro 2-4 cm., con lunghezza totale max di 100 cm, con una legatura centrale e le due finali accoppiate, in modo da apparire ripiegata. Colore bruno scuro; visibili i pezzi di lardo. Sapore forte e deciso, note evidenti di affumicatura. viene utilizzata appena appassita cotta nella sugna o conservata in recipienti di terracotta smaltata (ziri), nei ragù, zuppe, cotte sotto la cenere dei camini, avvolta nelle foglie di “minestra”.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Parti del suino utilizzate: La carne utilizzata per la produzione della salsiccia è ricavata dai seguenti tagli anatomici: lardo, polmone, cuore, ritagli ricchi di sangue (giunture, etc), maschera, a volte fegato, il tutto tagliato a dadi di 8-12 mm di lato. Il budello viene preparato artigianalmente, partendo dalle interiora degli animali macellati di cui si utilizzano le carni,  con diametro di 2-3 cm (intestino tenue).
Selezione della materia prima: operata manualmente.
Preparazione del budello: viene prelevato dalle interiora, pulito per raschiatura per eliminare grasso e villi, quindi strofinato con sale marino, addizionato di bucce e a volte di succo di agrumi (limoni, arance), quindi rilavato con cura.
Triturazione della carne: operata a punta di coltello
Concia: con sale da cucina (cloruro di sodio), pepe in grani, peperoncino piccante, finocchietto selvatico, aglio tritato fresco; non vengono aggiunti additivi, aromatizzanti, coloranti, polveri di latte, antiossidanti e conservanti, né starter e di conseguenza non viene aggiunto alcun tipo di zucchero.
Impasto: può essere effettuato manualmente o mediante impastatrice.
Insaccamento: può essere effettuato manualmente o con l’ausilio di una insaccatrice. Vengono utilizzati solo budelli naturali di suini.
Legatura: il budello ripieno viene legato con spaghi di canapa e forato per facilitarne l’asciugatura.
Asciugatura e maturazione: tipicamente in ambienti naturali e/o in locali tradizionali autorizzati.
affumicatura: obbligatoria, tipicamente a travi del soffitto delle cucine tradizionali o cantine, soprattutto con tempo umido d’inverno, per 25-30 giorni

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

laboratorio artigianale
locali tradizionali per la stagionatura
attrezzatura in acciaio
scanni e travi in legno stagionato
legna di bosco stagionata

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Il prodotto è notevolmente diffuso in zona ed è riportato in numerosi testi sulla gastronomia locale, sulla storia e sulle tradizioni del Sannio.

Salsiccia sotto sugna

In tutta la regione Campania, soprattutto nelle aree interne e rurali, è molto sviluppata la produzione di salsicce e soppressate con metodi di lavorazione tradizionali, anche leggermente affumicate. Per conservare a lungo gli insaccati ed evitare l’ossidazione delle carni, si usa il tradizionale metodo della conservazione sotto sugna in vasi di ceramica smaltata o di vetro, colmati con sugna disciolta. A differenza della conservazione sott’olio, che modifica il sapore della carne, il risultato è una maggiore morbidezza, un colore e un gusto inalterati. Particolarmente apprezzata è la salciccia sotto sugna di suino Casertano.

Scamorza di vacca e di bufala

Probabilmente l’etimologia della parola “scamorza” va cercata nella sua forma, che ricorda una “capa mozza”, cioè una “testa mozzata”. Si tratta di un formaggio vaccino prodotto tutto l’anno nell’intera Regione con latte di vacca la cui pasta viene semicotta e filata. Esistono parecchie variazioni sul tema della scamorza, sia per quel che concerne l’aspetto (il colore della crosta può variare dal paglierino al bruno, la forma più o meno sferoidale può avere una testina appena accennata o molto pronunciata) che per quanto riguarda il sapore (può infatti, essere affumicata o no e farcita con diversi ingredienti). La crosta è liscia, sottile e di color bianco avorio se il prodotto non è affumicato, in questo caso è color giallo tendente all’ocra, mentre la pasta è color paglierino, di consistenza morbida e di sapore spiccatamente aromatico. Nelle province di Napoli, Salerno e Caserta, le aree, cioè, della produzione della mozzarella di Bufala campana, si produce anche la pregiatissima scamorza con latte di bufala.

Scamorzini del Matese

Sinonimi e/o termini dialettali

Scamurzini ré Matese; Caciocavallini del Matese

Territorio interessato alla produzione

Aree montane del Massiccio del Matese, nei Comuni di San Gregorio Matese e Castello del Matese; Matese beneventano

Descrizione sintetica prodotto

Formaggio a pasta filata prodotto con latte di vacca intero di animali allevati nell’area di produzione. è un prodotto ottenuto con un procedimento analogo a quello del caciocavallo si differenzia da questo per la forma e per la stagionatura . La forma simile a quella del caciocavallo è molto più piccola e in alcuni casi si presenta come formato da due testine opposte strette dal legaccio che serve per appendere ad asciugare il prodotto. Il peso si aggira tra i 100g e non supera i 150 g Alla vista si presenta: il fresco con crosta liscia e bianca sodo al tatto, il semistagionato ha una crosta liscia quasi lucida di colore giallo paglierino. La pasta è omogenea e compatta bianco latte nella tipologia frasca, tendente al giallo paglierino nella versione stagionata più carico all’esterno e meno carico all’interno. Il sapore è piacevole, dolce e delicato fresco più pastoso e leggermente piccante semistagionato.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Il ciclo di produzione è praticamente identico a quello del caciocavallo del Matese.
Il latte destinato alla produzione del caciocavallo del Matese proviene dalla mungitura di animali alimentati con pascolo di montagna integrato da cereali e foraggi del posto.
Dopo la mungitura che avviene al mattino e alla sera il latte intero viene coagulato ad una temperatura di 38° con l’aggiunta di caglio di vitello liquido e siero innesto preparato nella stessa struttura di trasformazione del latte. Dopo circa 35 minuti si procede alla rottura della cagliata con la Remenatora (Bastone di legno di faggio a forma di spatola allungata di circa 90 – 100 cm) fino ad ottenere grani di pasta della grandezza di un’oliva. Si lascia quindi riposare la pasta per 15 minuti sotto siero quindi si procede, con l’ausilio di una tela alla raccolta della pasta dalla caldaia compattandola in una tinozza di legno di ciliegio. Inizia quindi la fase di maturazione della cagliata che si lascia così riposare con l’aggiunta di siero bollente dalle 2 alle 4 ore per permettere che avvenga la fermentazione lattica. La maturazione è completata quando la pasta è nelle condizioni di essere filata e questo si verifica prelevando una piccola porzione di pasta  che messa nell’acqua bollente se inizia a filare è pronta per la successiva lavorazione. La pasta viene quindi scolata dal siero e fatta sgocciolare per circa 15 minuti (il siero viene conservato per essere utilizzato alla prossima cagliata) poi ritorna nella tinozza e viene tagliata a fette, si aggiunge acqua bollente e si lavora con la Remenatora al fine di formare, con movimenti energici, un lungo cordone di pasta liscia, senza pieghe e sfilature e senza vuoti all’interno. Il cordone viene quindi porzionato secondo le esigenze di produzione  i pezzi mano a mano che vengono tagliati molto velocemente sono ulteriormente lavorati a mano nell’acqua bollente per modellare la forma comprimendo la pasta fino a renderla liscia e lucida dandogli la classica forma a due teste. Le forme così modellate vengono quindi immerse in acqua di raffreddamento e successivamente in salamoia. Tolte dalla salamoia le forme sono legate a gruppi anche di 100 scamorzini con legacci di raffia e sospesi a delle pertiche per l’asciugatura e la stagionatura.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

I locali di produzione sono laboratori artigianali e locali domestici per la stagionatura, Caselle dei pastori (vecchie cascine in pietra con tetto in legno e coppi normalmente terranee e di modesta altezza interna) o cantine, tali da garantire temperatura (8-15°) ed umidità (60-80%) pressoché costanti. Le attrezzature sono costituite da caldaie in acciaio inox o rame, telo di cotone per il prelievo della cagliata dalla caldaia, Remenatora in legno di faggio, Tinozza di legno di ciliegio, corda in rafia per la stagionatura.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Questo prodotto derivato dalla produzione del caciocavallo si è sviluppato negli anni sessanta. Il prodotto è ottenuto con lo stesso ciclo di produzione del caciocavallo del Matese, si differenzia da esso per le forme molto più piccole. è un adattamento alle esigenze di mercato che negli anni sessanta chiedevano un prodotto da acquistare e consumare subito in particolare durante il periodo estivo. Inoltre dagli anni ’60 per oltre 30 anni il territorio di San Gregorio Matese è stato rinomata meta turistica e i villeggianti, per lo più napoletani e romani, erano soliti ritornare alle rispettive dimore con i sani e genuini prodotti tipici del Matese che ora come allora erano essenzialmente i formaggi.

Sécena

Sinonimi e/o termini dialettali: Segale del Matese

Territorio interessato alla produzione: Altopiano del Matese: comuni di S. Gregorio Matese, Gallo, Letino

Descrizione sintetica prodotto

Varietà di Segale con cariossidi di colore grigiastro, tipicamente allungate con apici appuntiti, vestite; si presentano frammiste ad altri semi di infestanti, graminacee, brassicacee e leguminose.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Pratiche colturali tipiche di tutti i cereali autunno-vernini. Oggi viene utilizzata per l’alimentazione soprattutto invernale del bestiame; un tempo era utilizzato per la panificazione. la semina avveniva in ottobre, contestualemnte allo scavo delle patate. Le cariossidi venivano molite in mulini locali ed utilizzate per fare il pane. La farina si impastata con acqua, sale e criscito (pasta della lavorazione precedente) lasciata a lievitare per circa due ore al caldo, quindi reimpastata e fatta rilievitare per un’altra ora coperta da un panno, in canestre di vimini. Le forme di 3-4 Kg, rotonde, di colore scuro, senza occhiatura evidente, crosta scura, croccante e friabile, si conservavano per giorni e giorni.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

Materiali ed attrezzature tipici della cerealicoltura della zona, forni a legna.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Cereale utilizzato da secoli come alimento usato dopo la sfarinatura per la realizzazione del pane di segale.

Soppressata del Sannio

In tutta la provincia di Benevento si allevano suini di razza Landrace, Large White e Casertana, a base di prodotti naturali tipo mais, crusca e ghiande; è dalle parti migliori di tali suini, come il filetto e le spalle, che si ricava la soppressata del Sannio, un salume pregiato che vanta una tradizione molto antica. Per ottenerla, le carni vengono tagliuzzate in pezzi molto piccoli, salate e condite con pepe nero in granuli, per poi essere impastate a mano e lasciate riposare per alcune ore in recipienti forati per permettere lo scolo delle acque. La fase successiva è l’insaccatura, anch’essa molto particolare perché vengono utilizzate le budella più larghe del maiale, preventivamente lavate e aromatizzate per almeno 24 ore in una soluzione di acqua, sale e bucce di agrumi, e poi riempite a mano con l’impasto pressato in un canovaccio. Mentre s’insacca la carne, vengono aggiunti dei piccoli cubetti di lardo dorsale che caratterizzano il prodotto poiché lo rendono più morbido saporito. Al termine dell’insaccatura il salume viene forato con un grosso spillo e legato con spago a mo di rete in modo tale da pressarlo ulteriormente. Infine, si appende a pertiche di legno o di canne e viene fatto essiccare per circa un mese, al termine del quale la soppressata viene conservata intera in recipienti di vetro o ceramica, totalmente ricoperta da sugna fusa oppure da olio extravergine di oliva.

Stracciata del Matese

Sinonimi e/o termini dialettali

Stracciata ré Matese

Territorio interessato alla produzione

Comuni di San Gregorio Matese, Castello del Matese

Descrizione sintetica prodotto

Formaggio a pasta filata prodotto con latte di vacca intero di animali allevati nell’area di produzione. è a forma di cordone di dimensioni variabili con diametro dai 4 ai 6 cm ed il peso di solito non supera 1 kg Alla vista si presenta con crosta bianca liscia e lucida, la pasta è omogenea e compatta color bianco latte, il nome deriva dal gesto di stracciare la pasta del casaro che da forma al prodotto Il sapore è piacevole, fortemente di latte dolce e delicato, viene consumato fresco di giornata. Si differenzia dalla Stracciata irpina per la maggiore consistenza (solida e strutturata, quand’anche caratterizzata da abbondante latticello) e per la formatura comunque data al prodotto.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Il latte destinato alla produzione della stracciata proviene dalla mungitura di animali alimentati con pascolo di montagna integrato da cereali e foraggi del posto. Dopo la mungitura che avviene al mattino e alla sera il latte intero viene coagulato, ad una temperatura di 43° con l’aggiunta di caglio di vitello liquido e siero innesto preparato nella stessa struttura di trasformazione del latte. Dopo circa 35 minuti si procede alla rottura della cagliata con la Remenatora (Bastone di legno di faggio a forma di spatola allungata di circa 90 – 100 cm) fino ad ottenere grani di pasta della grandezza di noci. Inizia la fase di maturazione della cagliata che si lascia così riposare con l’aggiunta di siero bollente dalle 2 alle 4 ore per permettere che avvenga la fermentazione lattica. La maturazione è completata quando la pasta è nelle condizioni di essere filata e questo si verifica prelevando una piccola porzione di pasta che messa nell’acqua bollente se inizia a filare è pronta per la successiva lavorazione. La pasta viene quindi scolata dal siero versata nella tinozza dove viene tagliata in piccoli pezzi, si aggiunge acqua bollente e si lavora con la Remenatora al fine di formare, con movimenti energici, un largo cordone di pasta liscia, senza pieghe e sfilature e senza vuoti all’interno. Il cordone viene quindi porzionato stracciandolo in lunghi pezzi che vengono tagliati sono ulteriormente e lavorati a mano nell’acqua bollente per modellarne la forma. Questi successivamente vengono quindi immersi in acqua di raffreddamento e successivamente in salamoia.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

– Laboratori artigianali;
– Contenitori e piani d’appoggio in acciaio;
– caldare in acciaio inox o rame stagnato;
– Attrezzi di lavorazione in legno
– cucchiai di legno per rimescolamento della pasta (Remenatora) in legno di faggio,
– Tinozza di legno di ciliegio

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Il prodotto è ampiamente conosciuto nell’area interessata ed è sicuramente trasformato da almeno 25 anni come accertato attraverso testimonianze raccolte in zona. Questo prodotto, per la delicatezza, la dolcezza e la modesta quantità prodotta è da sempre, nell’area di produzione il formaggio della domenica. Conosciuto ma poco sviluppato a causa della rapidità con cui inacidisce è molto apprezzato nell’area di produzione.

Taralli intrecciati

I taralli intrecciati sono una specialità di tutte le aree interne della regione Campania e sono preparati da secoli con la stessa ricetta e la stessa tecnica, rigorosamente applicata dai panifici che li producono ancora al livello interamente artigianale. Gli ingredienti sono farina di frumento, olio extravergine di oliva, lievito, spezie o erbe aromatiche. Dopo l’impasto e la lievitazione, la pasta viene tagliata a striscioline che vengono intrecciate da loro e poi bollite, prima di essere cotte in forno. Sono dei biscotti dorati dalla consistenza croccante e dal sapore molto deciso e aromatico.

Timo delle coste del monte Mutria

Territorio interessato alla produzione: coste rocciose del monte Mutria, nei territori dei comuni di Pietraroja e Cusano Mutri (BN)

Descrizione sintetica prodotto

Nell’area considerata si rinvengono spontanee due specie del genere Thymus; in particolare si utilizzano, per tisane o per condire minestre ed arrosti, le foglioline e le infiorescenze essiccate di una particolare varietà di Thymus vulgaris che cresce spontanea soprattutto nei terreni aridi e sassosi fino ad un’altitudine di 1.500 m s.l.m.; è una pianta arbustiva perenne alta fino a 40-50 cm con fiori bianchi riuniti a grappolo, fusto legnoso nella parte inferiore e molto ramificato che forma dei cespugli molto compatti, con rami non striscianti; viene invece utilizzata per “conciare” formaggi e ricotta essiccata un’altra specie, Thymus serpillum, comunemente conosciuta in zona con il nome improprio di “pimpinella”, dai fusti più lunghi, striscianti e le foglie più piccole, verde scuro lucido con sfumature violacee e fiori normalmente rosa lilla.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Cresce spontaneo nei suoli con forte presenza di materiale calcareo, e sulle rocce; tipicamente colonizzatrice di scarpate rocciose, naturali ed artificiali (ad esempio, in corrispondenza di strade montane), dove viene attivamente ricercato e raccolto in primavera – estate, in presenza delle infiorescenze; vengono raccolti i rametti alla fioritura, nel momento di maggiore presenza di olii essenziali; essiccati all’ombra e quindi separate le foglioline ed i fiori, conservati in baratoli in vetro a chiusura ermetica, in luoghi freschi, asciutti e bui.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

Vengono raccolti i rametti fioriti, che vengono essiccati e da cui si separano foglioline e fiori; entrambe le specie sono molto diffuse.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Il T. vulgaris viene utilizzato soprattutto per tisane, aromatizzare arrosti, zuppe e minestre; il T. Serpillum per la concia di formaggi e ricotta essiccata.

Treccia

In tutto il territorio regionale viene prodotta la treccia: un formaggio di latte di vacca dalla caratteristica forma a due strisce intrecciate fra loro, che gli viene data a mano dopo la maturazione. Il formaggio è a pasta filata e può essere anche affumicato o farcito. La sua produzione è diffusa in tutta la regione e, come per tutti i formaggi a pasta filata, anche in questo caso occorre esperienza da parte del casaro nello stabilire il momento più adatto per l’inizio della filatura, che rappresenta senza dubbio la fase tipica e tradizionale del processo di lavorazione.

Turcinegliu

Denominazione del Prodotto: Turcinegliu

Sinonimi e/o termini dialettali: “Turcinegliu r’ Natale”

Territorio interessato alla produzione: AREA DEL MATESE

Descrizione sintetica prodotto:

Si presenta di forma molto irregolare, tendenzialmente allungata, di c.ca cm. 10, colore biondo chiaro, con copertura di miele di bosco; All’interno è di colore paglierino chiaro, diffusamente alveolato; La consistenza è morbida ed elastica, si conserva alcuni giorni ma va consumato all’istante per apprezzarne il gusto tipico e la caratteristica fragranza.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Le patate vengono lessate in acqua bollente, pelate e schiacciate nella bacinella con aggiunta di poca acqua calda; Successivamente viene aggiunta la farina e il lievito madre; L’impasto viene rimescolato a mano con aggiunta di poco sale, fino ad ottenere un impasto piuttosto molle, quindi coperto con telo per facilitare la lievitazione che avviene in circa due ore. La pasta così ottenuta, piuttosto fluida, viene fritta lasciandola delicatamente cadere con la mano direttamente nell’olio bollente. Appena imbionditi, i “turciniegli” si prelevano con la “scamatora” e si ripongono in una bacinella; Quindi vengono disposti su di una tavola di legno e cosparsi di miele di bosco prodotto localmente.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

–  Pentola di rame per friggere
– “Conchetella” (bacinella) per impastare
– “Scamatora” (schiumarola)
–  Farina 00
–  Lievito madre
–  Patate di montagna locali.
–  Acqua
–  Sale

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Secondo la tradizione più antica le patate, peraltro ampiamente coltivate nelle zone di alta quota del Matese, sono state aggiunte di recente alla ricetta. In origine, quindi, l’impasto era di sola farina, lievito madre e acqua. Il periodo di preparazione coincide con le festività natalizie, durante le quali, per i braccianti e i contadini poveri, costituiva l’unico dolce disponibile. Con alcune varianti, il prodotto è diffuso in tutto il territorio del Matese, ed è profondamente radicato nella cultura materiale locale. Può annoverarsi tra le infinite varianti della tipica “pasta fritta”, risalente a tempo immemorabile.

Virni

Denominazione del Prodotto: VIRNI

Territorio interessato alla produzione: aree montane dei comuni di Pietraroja e Cerreto Sannita del Parco Regionale di Matese (BN)

Descrizione sintetica prodotto

Fungo della specie Calocybe gambosa (già Tricholoma georgii) molto ricercato per le ottime caratteristiche organolettiche e per l’epoca di maturazione, che è tipicamente primaverile, da metà aprile alla seconda metà di maggio (da cui il nome con il quale è conosciuto altrove, fungo di S. Giorgio (ricorrenza il 23 aprile); cresce in cerchi o file a zig-zag in radure ai margini dei boschi, anche fra rovi e biancospini o rose canine ad altezze superiori agli 800 mt s.l.m.; le aree di crescita nella zona sono chiamate “vernere”, spesso caratterizzate da un’area a forma “di ferro di cavallo” con il colore dell’erba più scuro, fenomeno attribuito dalla fantasia popolare al passaggio di una “janara” o strega. Il cappello, di dimensioni a maturità fino a 10 – 12 cm, è carnoso, di forma da emisferico-convesso a pianeggiante; spesso ondulato al bordo, con cuticola opaca di colore bianco-crema, macchiata a volte di ocraceo od interamente giallo-bruno, con margine involuto ed ondulato specie negli esemplari giovani, lamelle fitte, situate, smarginate, bianche poi crema pallide con filo irregolare. Il gambo è normalmente tozzo, da cilindrico a subclavato; colore biancastro-crema, pruinoso in alto. la carne è compatta, bianca e con un caratteristico e pronunciato profumo di farina fresca. Nell’area se ne conoscono tre tipologie, secondo la zona di raccolta: con cappello chiuso grigio chiaro e gambo sottile; con gambo sottile, cappello aperto, di colore giallo chiaro; con gambo più grosso, cappello color senape scuro, più chiuso, che è la tipologia più pregiata, soprattutto se si è formato in prati bassi ed aperti.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura

Nella raccolta è vietato l’uso di rastrelli, uncini o altri mezzi che possono danneggiare lo strato umifero del terreno, il micelio fungino o l’apparato radicale della vegetazione. Devono essere riposti e trasportati in contenitori idonei a consentire la diffusione delle spore (panieri o cesti di vimini o similari). E’ vietata la raccolta di esemplari con diametro del cappello inferiore a 2 cm Sono indicati per condire le tagliatelle, in frittate o con uova strapazzate con formaggio; crudo previa marinatura, o grattato a crudo sulla pasta. viene cotto con olio ed aglio fresco. Essiccato dà un odore fortemente pronunciato; sott’olio viene conservato previa scottatuta in acqua ed aceto.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione

La lavorazione post-raccolta dei funghi avviene in modo tradizionale: l’essiccazione adopera tavole in legno non poroso (faggio, castagno) e teli in lino non colorati per evitare l’ovideposizione delle mosche. Per la produzione di sott’olio, i funghi vengono trattati con i normali utensili di cucina. L’essiccazione avviene all’aperto, nelle ore più calde del giorno, all’ombra; i locali per la trasformazione sott’olio sono solitamente le cucine casalinghe o qualche laboratorio artigianale locale, che usa tuttavia materiali e tipologie ambientali compatibili con l’assicurazione di un sufficiente livello di sicurezza alimentare.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive

Il virno è presente nei menù di tutti i ristoranti tipici della zona nell’epoca di raccolta e alimenta una frequentatissima sagra che ha luogo a Cerreto Sannita nel mese di maggio.

Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale I.G.P.

Descrizione del prodotto

L’Indicazione geografica protetta “Vitellone bianco dell’Appennino centrale” è riferita alle carni provenienti da bovini, maschi e femmine, esclusivamente di razza Chianina, Marchigiana e Romagnola, di età compresa fra i 12 ed i 24 mesi. Tali razze hanno infatti significative caratteristiche morfologiche comuni quali: la pigmentazione apicale nera (cute, musello, lingua e palato, ecc.), il mantello bianco che si presenta fromentino alla nascita e nei primi tre mesi di vita, la struttura somatica. Caratteristiche comuni di pregio sono anche: la particolare precocità (l’età tipica di macellazione si colloca fra i 16 e i 20 mesi), le caratteristiche di accrescimento, la resa al macello (62-64%), e l’eccellente qualità delle carni che si presentano magre, sapide e a basso contenuto di colesterolo. L’IGP “Vitellone bianco dell’Appennino centrale”, unica denominazione attribuita alla carne bovina fresca in Italia, ha voluto in effetti legittimare il valore pregiato delle migliori razze bovine da carne italiane a mantello bianco: la Chianina, che ha conquistato fama nel mondo gastronomico per la mitica “bistecca alla fiorentina”, la Marchigiana, antica razza da carne e lavoro nei campi molto diffusa anche nelle aree interne della Campania, la Romagnola, nota per le sue carni di eccezionale qualità. Il “Vitellone bianco dell’Appennino centrale” IGP deve la sua rinomanza alle pregiate carni delle razze sopra indicate, particolarmente succulenti, oltre che nutrienti e dalle caratteristiche commerciali superiori: colore rosso vivo, grana fine, consistenti, sode ed elastiche al tempo stesso, con piccole infiltrazioni di grasso (bianco) che solcano la massa muscolare. Qualità che derivano dalla razza dell’animale ma anche dal regime alimentare durante il periodo dell’ingrassamento. Il valore altamente nutritivo delle carni del “Vitellone bianco dell’Appennino centrale” IGP è costituito dall’elevato tasso di proteine di alto valore biologico, il basso contenuto in grasso (il valore medio dell’IGP è del 2%), l’ottimo contenuto in ferro, nella forma più facilmente assorbibile dall’organismo, e la buona percentuale di vitamine del gruppo B. Il bestiame destinato alla produzione della carne IGP, identificato ed iscritto ai libri genealogici, viene allevato secondo le norme prescritte dal disciplinare di produzione e marchiato a fuoco. La marchiatura viene effettuata al mattatoio da un esperto incaricato dall’organismo di controllo. Il logo deve viene impresso sulla superficie della carcassa, in corrispondenza della faccia esterna dei 18 tagli di carne previsti dal disciplinare. La carne è posta in vendita al taglio o in confezioni sigillate e sempre in punti vendita convenzionati che si impegnano a mantenere separate tale prodotto dalle altre carni. L’eccezionale fama conquistata in cucina dalle carni del “Vitellone bianco dell’Appennino centrale” IGP non ha bisogno di altre specificazioni: la tenerezza e il sapore delle squisite bistecche, alla griglia o in padella, dell’arrosto, allo spiedo o al forno, del bollito, dello spezzatino, richiamano solo la bontà e il valore delle antiche tradizioni alimentari italiane.

Cenni storici

Le razze Chianina, Marchigiana e Romagnola appartengono all’antico patrimonio genetico della zootecnia italiana e le cui origini risalgono addirittura all’epoca etrusca. Già in era pre-romana, in vaste aree dell’Appennino centrale, erano allevati, infatti, animali riconducibili alle razze su indicate, contraddistinti dall’avere il mantello bianco, un notevole sviluppo somatico adatto soprattutto al lavoro dei campi, ed altre affinità e similitudini dovute sia alla comune origine filogenetica che all’omogeneo areale di allevamento. Le tre razze sono di ceppo podolico, discendono infatti, dal Bos Taurus Primigenius; sia la razza Chianina che quella Romagnola hanno contribuito al miglioramento della Marchigiana, perciò con fondate ragioni si è giunti, nel tempo, a considerarle come un unico “tipo animale”. La Chianina, allevata soprattutto in Toscana e Umbria, per le sue intrinseche qualità, dovute anche ad un lavoro di selezione durato secoli, è stata esportata nel secolo scorso anche in America latina, Stati Uniti e Canada ed è a buon diritto la razza bovina da carne più famosa al mondo. La Romagnola, originaria delle fertili terre della Romagna e in parte del bolognese, è il frutto anch’essa del laborioso lavoro di selezione sugli antichi animali allevati dai barbari nel sesto-settimo secolo dC, con risultati di grande valore per quel che riguarda soprattutto la qualità della carne prodotta. La storia della Marchigiana, la razza da carne più diffusa in Campania e nelle altre regioni centro-meridionali limitrofe, è diversa: essa infatti è il frutto dell’incrocio tra le prime due razze operato intorno alla metà dell’800 da parte degli allevatori marchigiani, completato da successivo lavoro di selezione nel secolo scorso. L’effetto di questi incroci fu una trasformazione evidente del bovino iniziale: miglior sviluppo muscolare, mantello più chiaro, corna più corte e testa più leggera; la statura viene ad abbassarsi, per rendere la razza adatta ancor meglio al lavoro dei campi, rimanendo comunque, i vitelloni, particolarmente vocati per la produzione di una carne di assoluto pregio qualitativo.

Area di produzione

L’area di produzione del “Vitellone bianco dell’Appennino centrale” IGP comprende le aree interne collinari e montane degli Appennini centrali, dal Tosco-Emiliano fino alla Campania, in cui sono comprese le province per intero di Benevento ed Avellino.

Dati economici e produttivi

Attualmente la produzione di “Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale” IGP è in fase di notevole crescita. I dati della certificazione al 31.12.05 ci forniscono le seguenti informazioni: gli allevamenti in Campania (tutti di razza Marchigiana) iscritti al registro dell’IGP sono 386, di cui 353 nel beneventano e 33 in Irpinia. In Campania risultano iscritti anche 4 macelli (3 a Benevento e uno ad Avellino), mentre le macellerie autorizzate alla vendita sono 62 (2 ad Avellino, 18 a Benevento, 7 a Caserta, 32 a Napoli e 3 a Salerno). I capi certificati, nel 2005, in Campania sono stati 2.570, su un totale dell’IGP in Italia di 42.126 capi.

Registrazione e tutela

L’Indicazione Geografica Protetta (IGP) “Vitellone bianco dell’Appennino centrale” è stata riconosciuta conRegolamento (CE) n. 134/98 (pubblicato sulla GUCE n. L 15/98 del 21 gennaio 1998). Con Decreto dell’11 novembre 2009 (pubblicato sulla G.U. n. 277 del 27.11.2009), il MiPAF ha accordato la protezione transitoria nazionale alla modifica del Disciplinare di produzione, richiesta dal Consorzio di tutela in ordine alla disciplina produttiva e all’ampliamento della zona di produzione. Tale richiesta è stata anche pubblicata a cura della competente Commissione Agricoltura della UE sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea C082 del 16.03.2011. Trascorsi sei mesi dalla pubblicazione entro i quali altri Stati membri possono presentare eventuali opposizioni, come prevede la procedura comunitaria, le modifiche saranno definitivamente approvate con apposito Regolamento.

Organismo di controllo

L’organismo di controllo autorizzato è la Società 3A-PTA Parco Tecnologico Agroalimentare dell’Umbria, con sede in: Frazione Pantalla – 06050 Todi (PG), tel. 075.89571, fax 075.8957257. Sito web: www.parco3a.org.

Consorzio di tutela

Il Consorzio di Tutela del Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale I.G.P. è stato riconosciuto dal Mipaaf con D.M. del 29 marzo 2004 (pubblicato sulla G.U. n. 80 del 5 aprile 2004) in base all’art. 14 della legge 526/99 per la tutela, vigilazna e valorizzazione del prodotto. Esso ha sede legale in via B. Simonucci 3, loc. Ponte S. Giovanni – Perugia; tel. 0756079257 – fax 075398511. Sito web: www.vitellonebianco.it